Ci sono autori che hanno forgiato l’immaginario di due o tre generazioni e tutti glielo riconoscono perché tutti almeno un po’ li conoscono. Ce ne sono altri che vantano un credito altrettanto cospicuo, ma a saperlo sono in relativamente pochi.Richard Matheson, scomparso ieri alla bella età di 87 anni, è uno di questi. Pochissimi hanno fatto quanto lui per trasportare l’horror e il fantastico dalle ombre ottocentesche del gotico nella terra apparentemente luminosa del XX secolo. È lui il vero padre culturale di Stephen King: nessuno, prima di lui, aveva saputo moltiplicare i fattori inquietanti del fantastico calandoli in un contesto di assoluta e persino piatta normalità; nessuno, nella sua generazione, era altrettanto capace di passare da un linguaggio all’altro intrecciandoli tutti e contaminandoli sino a renderli indistinguibili. Come King, scriveva romanzi con la macchina da presa montata su quella da scrivere, sceneggiava film di grandissimo successo con lo spirito del romanziere ed era capace di trasferire la doppia eredità nei codici della allora quasi neonata della televisione.

La serie più nota e riuscita dell’horror moderno, quella dei morti viventi di George Romero, è figlia legittima di uno dei suoi romanzi migliori e più famosi, Io sono leggenda, uscito nel 1954. Protagonista l’ultimo (o quasi) essere umano rimasto su un pianeta popolato dalla versione moderna e imbestialita, priva di ogni seduttività draculesca, di una stirpe vampira e carnivora. Quella storia, portata sullo schermo tre volte senza contare il rimaneggiamento di Romero, era esplicitamente ispirata dal romanzo gotico di Bram Stoker. Solo che Matheson, figlio della grande depressione e poi della guerra fredda, rovesciava i ruoli. A scontare il prezzo salato della solitudine e della diversità, dell’impossibilità di comunicare con un suo simile, non è più il mostro ma il «normale». Ma in un universo in cui il vampirismo è diventato universale, chi è più mostruoso, più sinistramente leggendario, dell’unico essere rimasto «normale»?

[do action=”citazione”]Matheson giocava con i generi così come con i linguaggi: horror, fantasy, sci-fi. Ma, anche in questo anticipando King, in ciascuno riproponeva il suo tema ricorrente, molto meno leggero di quanto l’apparenza non rivelasse. I personaggi di Matheson sono sempre soli, non perché privi di rapporti e affetti ma perché precipitati in condizioni esistenziali che non possono essere condivise da nessuno, né in alcun modo comunicate. Non sono semplicemente soli: sono «unici».[/do]

Lo è la «leggenda» che regala il titolo al capolavoro giovanile, ma lo è anche il personaggio di quello più fortunato sul mercato, The Shrinkling Man, del ’56, in italiano Tre millimetri al giorno. Di tanto decresce, senza alcune felicità, il protagonista, e le conseguenze sono facilmente immaginabili. Tutto quel che era quotidiano, banale, tenero o tutt’al più fastidioso diventa un mostruoso pericolo; un gomitolo di lana, l’amato micio, il ragnetto nascosto in qualche dimenticato angolo di una casa diventata all’improvviso grande come un continente. Ma l’incubo vero non è neppure costituito da questa dimensione un tempo rassicurante e che di giorno in giorno sempre più minacciosa. È il muro che, a colpi di 3 mm ogni santo giorno, piano piano lo isola dal resto del mondo, lo separa dalla sua famiglia, lo rende un alieno che ai cui occhi però gli alieni sono gli altri, quegli esseri un tempo amati e affettuosi diventati giganti che potrebbero ingoiarlo, senza neppure accorgersene, come una caramella.

Ed è unico, separato da tutti quelli che sino a un attimo prima gli erano simili, anche il protagonista di A Stir of Echoes, del ’58, maltradotto in italiano come Io sono Helen Driscoll. Un esperimento di ipnosi e di punto in bianco un ragazzo come tanti si ritrova, al risveglio, in grado di vedere i fantasmi, leggere nel pensiero, intravedere il futuro. Doni, o dannazioni, che come sempre in Matheson, lo traggono fuori dal mondo di tutti e lo chiudono un universo personale e chiuso, circondato da una barriera di unicità e diversità che rende ogni comunicazione impraticabile.

Norvegese di origine, nato nel Jersey, cresciuto nella Brooklyn della Grande depressione, soldato della guerra mondiale, poi laureato in giornalismo il giovane Matheson continuò a dover sbarcare il lunario in fabbrica anche dopo aver scritto Io sono leggenda. Soldi e successo e possibilità di dedicarsi solo alla scrittura arrivarono solo con Tre millimetri al giorno, ma da quel momento non lo abbandonarono. Da ogni suo romanzo veniva puntualmente tratto un film, quasi sempre con le file al botteghino. Lui stesso dedicava alle sceneggiature, senza mai dimenticare i romanzi e soprattutto i racconti.

Però se si dovesse scegliere una sola opera, un solo lavoro per definire al meglio il suo stile non sarebbe un romanzo e neppure un film, ma una serie televisiva passata non per modo di dire alla storia: l’eccezionale The Twilight Zone (Ai confini della realtà) di Rod Serling.

Tra il 1959 e il 1964, scrisse 14 tra gli episodi più famosi della serie, in ciascuno misurandosi, sempre con successo, col tentativo di calare l’horror e il fantastico, il sovrannaturale, nella quotidianità del Novecento americano. Lungo la strada che aveva aperto si sarebbero poi inoltrati in molti: dall’Ira Levin di Rosemary’s Baby all’apoteosi di Stephen King e poi alla truppa foltissima degli innumerevoli discepoli. Perché Richard Matheson, prima e più che ogni altra cosa, era un pioniere.