Il sociologo: Renzi non può considerare il lavoro una variabile economica dipendente. Con la precarietà si colpiscono i giovani, altro che garantiti.

Professor Luciano Gallino, la Cgil scende in piazza e sfida Renzi. Se fallirà il sindacato sarà definitivamente rottamato?

Negli ultimi 25 anni è stato fatto tutto il possibile per rottamarlo. Se il sindacato ci ha messo del suo, arretrando in maniera paurosa su molti temi, è pur vero però che sono state le leggi degli ultimi 15 anni ad attaccare lo strumento principe del sindacato e l’ultimo baluardo per un minimo di redistribuzione del reddito: il contratto nazionale. Detto questo, se la manifestazione della Cgil andasse male sarebbe una sconfitta per il paese perché mancherebbe la voce di chi sta male, una fascia sempre più ampia di popolazione che dimostrerebbe di non credere più nel sindacato.

Sembra però che invece la manifestazione sarà molto partecipata. In questo caso quale crede sarà il messaggio che si alzerà da piazza San Giovanni?

Sembra anche a me e me lo auguro. Il messaggio è che sarebbe ora di smetterla di trattare i lavoratori come una variabile dipendente dell’economia a cui imporre qualunque dettato, come ha insegnato Margaret Thatcher. Le cose non si creano da sole: dietro c’è il lavoro delle persone. Ho trovato sgradevole l’aria di sufficienza, talvolta di disprezzo con cui il presidente del Consiglio tratta i lavoratori. La verità è che negli ultimi 20 anni la quota salario sul Pil secondo i dati Ocse ha perso 10 punti: un’enormità.

La Cgil chiede « investimenti pubblici e privati, l’estensione dei diritti, meno contratti, ammortizzatori universali e contratti di solidarietà». Una piattaforma appropriata per cambiare verso?

L’importante è farsi sentire su due o tre temi chiave. Il più importante è il rilancio degli investimenti pubblici per creare direttamente lavoro e non per distribuire pochi euro a pioggia. Per questo governo fatto da personaggi di destra, per cultura e vocazione, l’idea di investimenti pubblici fa venire l’orticaria, però è incontestabile che le altre strade hanno fallito miseramente.

Il governo ora ci prova dicendo agli imprenditori: «Abbiamo seguito tutti i vostri desiderata – Irap, abolizione articolo 18 – ora dovete assumere». Lei sostiene che non lo faranno.

L’idea del governo di abbassare le tasse alle imprese per produrre posti di lavoro è fallita in tutte le salse in tutte le parti del mondo. In più stiamo parlando realmente di pochi spiccioli dati fra l’altro a pioggia e senza distinzione. Niente a che vedere con gli 85 miliardi al mese che Obama mise a disposizione appena eletto.

In fatto di lavoro Renzi invece ha usato con abilità lo scontro garantiti-giovani, la famosa apartheid da superare tramite l’abolizione – solo per i giovani  – dell’articolo 18.

Il presidente del consiglio ha un bel coraggio nel definire garantiti i lavoratori dopo che dall’inizio della crisi un milione di loro sono stati licenziati. Da 10 anni di lavoratori garantiti non ce ne sono più. Dalla Fiat in giù aziende e imprese chiudono, delocalizzano, spesso senza ragioni appropriate, senza che il governo faccia niente.

E i giovani invece? Perché fa presa l’idea che togliere l’articolo 18 potrà permettergli di avere più diritti e un futuro migliore?

Perché non si è saputo contrastare l’idea stessa di precarietà. È andata in scena una controffensiva di classe di portata straordinaria: la precarietà è stata l’invenzione principale degli ultimi 15 anni, dal pacchetto Treu del 1997 alle leggi Sacconi del 2001-2003, alla riforma Fornero e ora al decreto Poletti e al Jobs act l’offensiva è stata diretta soprattutto contro di loro. L’auspicio è che loro stessi inizino a capirlo.

Renzi però ora sembra fare la voce grossa in Europa. Lei è ottimista sulla possibilità che durezza della crisi e gravità della situazione portino ad un cambio nelle politiche economiche?

Si leggono dichiarazioni di economisti neoliberali di destra che ammettono il fallimento dell’austerità. Ma le politiche europee sono sempre le stesse: basta che un giovanottino come Katainen butti giù due parole che tutti si adeguano immediatamente. Per cambiare strada serve cambiare i Trattati e il pareggio di bilancio in Costituzione. Va ribaltata l’idea che la crescita verrà se il lavoro costerà meno. Anche in Germania si inizia a capire che il successo delle esportazioni è dovuto al calo del costo del lavoro: 7,5 milioni di minijobs e 7,5 milioni di lavoratori che prendono meno di 7 euro l’ora.

Se neanche la Germania è un modello, chi lo può essere?

Il New Deal di Roosvelt. Quello che con investimenti pubblici creò 4 milioni di posti di lavoro in soli tre mesi. In più regolò l’attività finanziaria in modo feroce, diede impulso ai sindacati e costruì infrastrutture colossali. Ecco, se vogliamo uscire dalla crisi ora serve un nuovo New Deal per l’Europa.