Dopo una breve latitanza è riapparso in libreria, ritradotto da Maria Nicola, La letteratura nazista in America (Adelphi, pp. 250, euro 19,50). Trattasi di opera mimetica, di finzione dissimulata, di un finto manuale. Va però ricordato che, di fatto, qualunque narrazione complessa questo è: una funzione dissimulata. Si prenda, quale esempio, il narratore onnisciente, tipico di romanzi ben più convenzionali. Nessuno ci fa più caso, tanto ci siamo abituati. Ci appare come una manifestazione dovuta e attesa, non molto diversa dallo spegnimento delle luci in sala prima della proiezione del film. Eppure cosa c’è di più assurdo di una voce che, come i pazzi, parli indefessamente in terza persona di cose che paiono non riguardarla? Quella voce, la voce del narratore onnisciente, non è forse una dissimulazione perfetta?

La letteratura nazista in America e tutta la letteratura che possa dirsi «borgesiana» adottano un procedimento inverso. Non si spengono le luci affinché il film inizi, si proietta il film per fare il buio in sala. A tutta prima la sostanza parrebbe la stessa e magari è davvero così. In fin di conti, all’interno dell’opera nulla è cambiato: uno schermo luminescente in una sala buia. All’esterno si verifica però un mutamento, perché ora lo spettatore ha un dubbio, non è più così certo circa il cosa guardare, se lo schermo o il buio che lo circonda. Interi saggi potrebbero scriversi sull’importanza del buio in Bolaño, sul peso che ha la notte in molti suoi racconti, sulla sua abitudine di passeggiare di notte, sul Notturno cileno, sui tanti possibili sensi, più o meno figurati, dell’aggettivo «notturno». Limitatamente al libro in questione, il buio è un buco nero, un’assenza. L’America latina è stata terra di dittature e massacri, ha conosciuto nefandezze di ogni tipo e ha spesso offerto riparo e nuova vita a nazisti in fuga dall’Europa.

Tutta questa tenebra non ha però prodotto una sua letteratura, e che non si ci sia letteratura dietro i «nostri» mostri, scriveva a un amico Bolaño nel 1993, li impoverisce, «fa sì – e questo è grave – che esistano solamente nei nostri incubi». Per porre rimedio al vuoto, Bolaño concepisce una sorta di piccola enciclopedia, un manuale dedicato a questa letteratura inesistente, un libro di testo nel quale siano raccontate in modo sintetico e sistematico la vita e l’opera di eteronimi filonazisti. Perché il gioco regga è però necessario che l’autore si adegui al tono distaccato e conciso dell’enciclopedista, un tono affatto diverso da quello che può tenere il narratore onnisciente in un romanzo. Le prime pagine paiono, sotto questo aspetto, impeccabili. Si leggono frasi meravigliosamente neutre: «A quindici anni diede alle stampe il suo primo libro di poesie… Nel 1917 conosce l’allevatore e industriale Sebastián Mendiluce… Nel 1931 è di nuovo a Buenos Aires e comincia a dare corpo ai suoi progetti… Gli ultimi anni Eldemira li trascorse alla tenuta di Azul…»

L’autore ondeggia un po’ troppo tra il passato remoto e il presente storico, è vero, ma il vezzo è veniale e può servire a movimentare la pagina. Come pure si possono perdonargli altre piccole sbavature alle quali sembra incline, il fregarsene delle ripetizioni, un uso insistito della virgola quando sarebbe preferibile il punto. I veri problemi emergono tuttavia con la terza biografia, dedicata a Luz Mendiluce Thompson, poetessa obesa e alcolizzata. È qui che la voce enciclopedica comincia a farsi prendere la mano: «Dopo due giorni (che trascorre come una sonnambula) Luz scopre di essersi innamorata. Si sente come una bambina. Si procura il numero di Claudia a Rosario e la chiama. Quasi non ha bevuto, quasi non riesce a trattenere l’emozione».
Nelle pagine successive la voce pare tornare a contenersi, ma quando giunge a raccontare le sventure matrimoniali di Irma Carrasco, «poetessa messicana dalle tendenze mistiche e dall’espressione straziata», la voce enciclopedica (e non siamo nemmeno a metà dell’opera) conosce un nuovo e più intenso cedimento. Al momento di raccontare la definitiva rottura di costei con l’uomo che l’ha costantemente percossa e tradita, la voce sconfina nel melodramma: «Irma storce la bocca in una smorfia… e scaglia a terra il bicchiere… il liquido giallo si spande sulle mattonelle bianche… Picchiami, dice Irma. Su, picchiami, e sporge il busto verso l’ex marito».

Il libro prosegue a questa maniera, con la voce enciclopedica sempre sul punto di tradirsi, finché in chiusura, nell’ultima biografia, quella di un poeta aviatore amante del crepuscolo e destinato a diventare il protagonista di un successivo romanzo intitolato Stella distante, la voce sbotta, infrange la neutralità che le competerebbe e confessa in prima persona un’idiosincrasia di ordine linguistico: «la parola moroso mi fa venire la pelle d’oca». Di lì a poco diventa evidente che la voce che non sa o non vuole darsi un contegno appartiene proprio a Bolaño o comunque a qualcuno che porta il nome di Bolaño, il quale riferisce perlopiù per sentito dire fatti dubbi, tutti da verificare. Anche l’opera del poeta aviatore si fa sempre più nebulosa col procedere della narrazione, apparendo legata a «più di una rivista dall’esistenza effimera, dove pubblica progetti di happening che non realizzerà mai». Le tracce del poeta, dell’uomo cioè, si perdono invece nei vicoli raminghi tipici dei falliti, di chi campa di espedienti. L’uomo diventa una «figura assente», un buco nero, come di fatto è sempre stato. Viene dimenticato pur avendo lasciato dietro di sé una scia di sangue nei giorni bui del golpe cileno. Nondimeno in certi ambienti, ovviamente non meglio precisati, «il suo meteorico passaggio per la poesia diventa oggetto di culto». Finché rientra in scena Bolaño. I dettagli possono essere omessi, conta che con la seconda intrusione dell’autore il manuale cessa di essere un racconto dissimulato per diventare un racconto con tutti i crismi, una storia inventata o, volendo dirla con parole che Javier Cercas mise in suo romanzo in bocca a Bolaño, un’invenzione intessuta di ricordi.

Si intravede allora un’altra possibilità: forse il manuale non è mai stato un manuale o, seppure inizialmente lo è stato, è diventato altro. Similmente, la letteratura di cui si parla forse non è mai stata nazista o, seppure inizialmente così è stata immaginata, è poi diventata racconto della letteratura in generale, della natura patetica, disperata, meschina, «canagliesca» direbbe Bolaño, di chi la popola. Chi ha letto abbastanza di Bolaño avrà provato la sensazione, al tempo stesso soavissima e terribile, di ritrovarsi in un mondo dove tutti sono o poeti o gente che frequenta poeti, il che fa dunque di questo mondo uno strano luogo dove tutti sono o canaglie o gente che potrebbe diventarlo. L’unica possibilità umana di esistere che pare davvero alternativa al poeta è l’essere poliziotto o qualcosa che si gli avvicina. Che genere di assurdità è mai questa? Un poeta, un vero poeta, può sopportare qualunque cosa, diceva Bolaño e lo pensava davvero.

Nel suo mondo appaiano però spesso poeti che a stento potremmo definire «veri», poeti minori, poeti il cui unico talento sembra appunto quello di sapere tirare avanti nella miseria e nell’infamia, di sopportare tutto, a cominciare dal buio in cui vivono. Chiedersi se siano davvero poeti o una dissimulazione dell’umano esistere è però come chiedersi se le cose accadano per caso e per una causa, significa non cogliere il punto, significa non vedere dove si proietta il film. Perché è lì che viviamo, lì che ricorderemo chi ha vissuto, lì saremo che tutti dimenticati. Nel buio.