Pochi giorni dopo Jonas Mekas, un altro tra i massimi inventori di cinema vi lascia un vuoto: s’intitolava A Hole in the Soul l’ultimo film che era riuscito a realizzare, nel remoto 1994, e allora quel«buco nell’anima» appariva la più radicale testimonianza del buco lasciato dalle guerre jugoslave non solo sul mappamondo, non solo tra presunti nostalgici jugoslavi, ma nell’anima del mondo. Perché diciamolo: con Alain Resnais, Vittorio De Seta e John Boorman (che per la stessa serie dell’ultimo Makavejev, Director’s Place, realizzò uno dei suoi film più personali) Dusan Makavejev, nato a Belgrado nel ’32, fu il massimo reinventore junghiano del cinema, qui come altrove senza dogmatismi, unendo appunto Jung a Freud, Wilhelm Reich e Karl Marx.

Dopo quel bellissimo mediometraggio non è che Makavejev fosse scomparso: non riusciva a concludere dei film ma inventava ancora il cinema. Tra i suoi progetti non realizzati perché per tutti i festival e i produttori intercettati appariva troppo costoso, c’era quello di riprodurre in foto giganti ciascun fotogramma del suo stupendo Sweet Movie (’74) e montare questa pellicola fatta di fermi-immagine corrispondenti alla totalità dei fotogrammi in qualche paesaggio urbano reale. Ce lo propose anche per Venezia, e sarebbe stato un percorso stupendo, quando con Mila Lazic lo coinvolsi come supervisore della retrospettiva balcanica per La Biennale. Il cittadino del mondo (o meglio, fantascientificamente, dei mondi) era l’interlocutore perfetto di un post-mondo cinematografico con cui volemmo reagire alla logica della distruzione.

AL PROSSIMO Fest di Belgrado, in febbraio, verrà reso omaggio a Makavejev con un premio postumo e con l’anteprima di un documentario dedicatogli da Goran Radovanovic. L’evento era previsto da tempo, sapendo che sempre più Makavejev, colpito da un feroce Alzheimer, stava perdendo la memoria, e ormai riusciva a riconoscere solo la compagna e collaboratrice Bojana Marijan. Qualche giorno fa Zelimir Zilnik, venuto a Trieste e a Roma col suo magnifico Das schönste Land der Welt, ci ha parlato della sua recente visita a casa Makavejev, dove questi, pur non riconoscendolo, si confermò rabdomante oltre il reale, dicendo a Bojana: «Cosa mi racconta questo di essere Zilnik, quando so che Zilnik vive in Africa?».

In pochi altri cineasti c’è una tale distanza tra numero di opere realizzate (contrariamente a Zilnik, che gira continuamente) e presenza costante nel cuore del cinema. Come nei cineasti che l’avevano improntato, lui che aveva un ramo russo nelle origini, appunto i sovietici Dziga Verov e Medvedkin. Ma forse meno dichiaratamente anche Dreyer, dacché il risveglio dalla morte finale di Sweet Movie è tra i massimi sviluppi nel cinema del film a cui è impossibile non riferirsi per ogni cineasta vero, appunto Ordet.

I SUOI primi lungometraggi degli anni 60 (dopo i cortometraggi collegati col Kino klub Beograd che coinvolse Zivojin Pavlovic, Kokan Rakonjac e altri grandi) arrivarono in Italia per merito della Mostra del nuovo cinema di Pesaro, e trovarono anche marginali distribuzioni: non ancora L’uomo non è un uccello ma il successivo Un affare di cuore e poi Verginità indifesa, uno dei massimi film del 1968. Il primo e il secondo film contengono nel titolo o nel sottotitolo un riferimento all’amore, che di tutto il suo cinema è stato il motore.

DOPO questo trittico, che è anche tra i più geniali «superamenti» (insieme a Pavlovic) del neorealismo di Rossellini, tradotto in ossessione bunueliana, Makavejev realizza tra 1971 e 1974 un dittico, WR o i misteri dell’organismo e il citato Sweet Movie, che resteranno tra le vette degli anni 70 – non a caso Coppola fu tentato di affidargli la regia di Apocalypse Now. Quel dittico fu dileggiato da tutte le censure: quella italiana rifiutò definitivamente il visto al primo film per punire la distribuzione PEA di Ultimo tango a Parigi e fu «costretta» ad accettare il secondo (con tutta la trafila di sequestri e dissequestri) in quanto edito in versione italiana da Pasolini .

CI FU POI la stupida censura jugoslava che lo liquidò come provocatore anziché come rivelatore del socialismo. E ad esse si aggiunse la censura critica del momento di massimi fraintemdimenti dei «Cahiers du cinéma», che giunsero a trattarlo da «fallocrate» e liquidarono WR come film «anticomunista, antimarxista, antifreudiano, incredibilmente stupido», aggettivi tutti da ritorcere su chi li emise.

Negli anni 80, realizzò ancora Montenegro tango, Coca Cola Kid, Manifesto e Gorilla Baths at Noon, che all’uscita colpirono meno dei precedenti ma che oggi, ne siamo certi, si imporrebbero tutti come grandi film da riscoprire.

Tutta l’opera di Makavejev è essenzialmente cinema prima di rinchiudersi in film: ma i film che oggi ce ne rimangono sono infiniti, e potrebbero essere svolti in fermi-immagine. Gli spettatori di una sua personale (o di una sua integrale in dvd, che da tempo Ripley’s progetta) vi scopriranno il buco nell’anima che il vero grande cinema sa di non poter colmare, ma che è capace di rivelare.