Nei giorni della caccia a Mukhtar Ablyazov la questura di Roma era invasa da diplomatici kazaki ansiosi di mettere le mani sul banchiere oppositore del regime di Nursultan Nazarbaev. E questo senza che in nessuno tra i funzionari presenti sia scattato un campanello d’allarme sul perché di tanta attenzione per quello che, ufficialmente, era pur stato presentato dallo stesso ambasciatore kazako a Roma come un criminale comune, seppure pericoloso. Né sul perché la stessa attenzione sia stata poi riservata ad Alma Shalabayeva, la moglie del dissidente, e alla figlia Alua, visto che si trattava di una semplice procedura di espulsione, al punto da utilizzare un volo privato per trasferirle dall’aeroporto di Ciampino fino alla capitale kazaka.
Il giorno dopo l’autoassoluzione del ministro Alfano in parlamento, spetta al capo della polizia Alessandro Pansa difendere l’operato del governo. Del resto è stato proprio lui a preparare la relazione utilizzata dal titolare degli Interni per fare chiarezza sui giorni in cui, alla fine di maggio, i vertici del Viminale e della Questura erano mobilitati nella ricerca di Ablyazov. Al punto che i diplomatici di Astana erano inchiodati negli uffici di San Vitale. «Una presenza massiccia, prolungata e invasiva», dichiara il prefetto parlando davanti alla Commissione diritti umani del Senato. «Ho stigmatizzato questi comportamenti» perché rappresentano una «disfunzione, addebitabile a una superficialità nella gestione della vicenda» prosegue Pansa, per il quale Alma Shalabayeva «non ha mai fatto richiesta d’asilo». E lo stesso avrebbero fatto i suoi legali: «Il dato essenziale – dice Pansa – è che in nessun momento nessuno, compresi gli avvocati, hanno mai detto ’guardate che il marito della signora è un perseguitato politico che ha ottenuto asilo politico nel regno Unito’». Anzi, proprio a proposito di questo il capo della polizia precisa: «Abbiamo chiesto formalmente all’Interpol inglese se Mukhtar Ablyazov è un rifugiato, ma ancora non abbiamo avuto risposte».
Quella del prefetto è una difesa a tutto tondo dell’operato dei suoi uomini, al punto di dire che la vicenda che riguarda l’oppositore kazako e la sua famiglia «non rappresenta una macchia per la polizia, semmai un errore». Stessa cosa per le violenze che sarebbero state praticate nei confronti della Shalabayeva. «Non vedo perché bisogna dar credito a certe affermazioni e non a quelle dei poliziotti», dice Pansa.
Ma il prefetto va oltre. Dalle sue parole, come da quanto scritto nella relazione letta al Senato da Alfano, si basa infatti la difesa e la stessa sopravvivenza del governo. E quindi Pansa ripete come il titolare degli Interni, e con lui il ministro degli Esteri, siano rimasti all’oscuro di tutto fino a quando Shalabayeva e la piccola Alua erano già state rimpatriate. «A me non risulta – dice il prefetto – che prima del giorno 1 giugno i ministri Alfano e Bonino sapessero dell’espulsione della signora. Non è stata fornita l’informazione dell’espulsione». Un black out informativo completo, come ricostruisce Pansa riportando un colloquio intercorso tra lui e Alfano: «Mi disse ’ma perché o non so?’ E io ho detto : ’Ministro non lo so, ora vedo’».
C’è poi il caso della piccola Alua, la figlia di 6 anni di Alma Shalabayeva. Pansa nega che si stata espulsa perché, dice, l’espulsione dei minori è vietata, a meno che non vada al seguito dei genitori come in questo caso». Vero. Così come è vero che la stessa legge prevede che nel caso il genitore decida per la permanenza in Italia del figlio, non può essere espulso neanche lui. Qualcuno ha avvertito Alma Shalabayeva di questo suo diritto? E se sì, perché non se ne è avvalsa visto che era consapevole di finire nella mani di un dittatore?
Su tutta la vicenda adesso cercherà di far luce anche la procura di Roma che ieri ha acquisito la relazione del capo della polizia e che nei prossimi giorni potrebbe anche decidere di ascoltare la Shalabayeva attraverso una rogatoria internazionale.