Nicholas Penny quando era direttore della National Gallery di Londra, foto Graeme Robertson

 

Una Maddalena così non la si vede tutti i giorni: carponi, discinta, e abbastanza stordita dalla predica della sorella; forse davvero si pente, e abbandona diademi e perle dopo una vita traboccante di peccati. Marta le indica un angelo infuriato, che si è munito di un bastone per picchiare un diavolaccio. Due donne si tirano dietro la porta: meglio accantonare il triste spettacolo che è in scena.
Questo scandaloso dipinto era opera di Guido Cagnacci, «generalmente proclamato per il primo penello de nostri tempi», come si legge in una guida di Venezia del 1663. Lo aveva dipinto per l’imperatore Leopoldo I, poco più che ventenne, ma il «bellissimo Quadro della Madalena, che è alquanto lassivo» avrebbe poi girato parecchio fra Sei e Settecento – da Mantova a Venezia – fino a trovarsi a un passo dall’essere acquistato dal Granduca di Toscana. Due pittori veneziani, Niccolò Cassana e Sebastiano Ricci, che riscuotevano successo anche come mercanti, verosimilmente lo portano poi in Inghilterra.
Ma la fascinazione che questa tela gigantesca aveva generato non era più scontata nel 1981: quando Federico Zeri segnalò il dipinto a Burton Friedricksen, e questi ne parlò con Harold Williams, allora presidente del J. Paul Getty Trust, il verdetto fu che non si era mai sentito parlare del suo autore, e quindi tanto valeva non acquistarlo. D’altronde Cagnacci lo si conosce per davvero solo perlustrando chiese e collezioni in Romagna, ma in quell’occasione fu meno retrivo Norton Simon, collezionista californiano che da qualche decennio si era distinto per acquisti messi a segno con una certa sapienza. Il museo di Pasadena aveva già cambiato nome per intitolarsi direttamente al grande benefattore, incoraggiato così ad arricchire le sale di dipinti antichi di prim’ordine. Diverse storie come queste si estraggono leggendo Italian Paintings in the Norton Simon Museum The Seventeenth and Eighteenth Centuries di Nicholas Penny (con contributi di John Griswold, Helen Howard, Giuseppe Porzio, Gloria Williams Sander) per la Yale University Press (pp. 415, $ 75,00).
Chi conosce il catalogo dei dipinti del Cinquecento della National Gallery di Londra troverà in questo libro una diretta prosecuzione dell’impostazione proposta da Penny, che del museo inglese è stato direttore. L’attenzione ai dati materiali e conservativi introduce estese ricerche sulla provenienza, indagini attente alle iconografie integrano i problemi posti al conoscitore, osservati sempre da un punto di vista laico e ragionevole.
La trama di passaggi da una collezione all’altra arricchisce di sfaccettature le opere, di volta in volta ammirate o dimenticate, in funzione delle oscillazioni del gusto. La linea concertata con Francis Haskell al tempo del Taste and the Antique si declina in una serie di casi concreti. Leggendo le schede di Nick Penny, si avverte quanto il Settecento veneto per Norton Simon rimanesse un approdo sicuro, ma non sono nemmeno mancate le incursioni verso ambiti meno consolidati di pittura italiana, a partire proprio da Cagnacci. In uno scaffale ideale di una biblioteca che comprende gli ultimi arrivi del genere, questo catalogo trova posto accanto al lavoro, più monumentale, curato da Carl Strehlke e Machtelt Israels sulla collezione Berenson ai Tatti (Officina Libraria, 2015).
Le novità, pur non sbandierate, non mancano: come sui due ovali di Giambattista Tiepolo, dove le satiresse a riposo sono infastidite dai putti, per cui si propone una provenienza da Palazzo Avogadro a Brescia.
Poi, se non esistessero lavori di questo tipo, certe informazioni decisive sul mercato degli old masters sarebbero destinate a perdersi o a rimanere intrappolate nei meandri degli archivi documentari dei musei. Basti come esempio quel che succede al Goffredo di Antonio Guardi, tela che faceva parte di un ciclo tratto dalla Gerusalemme Liberata illustrata da disegni del Piazzetta. Gli otto dipinti erano rimasti appesi al soffitto di una drawing room in Irlanda (rivestita di arazzi eseguiti ai Gobelins) per più di un secolo, quando nel 1955 un consorzio di mercanti dublinesi se li accaparra per una cifra irrisoria. Qualche anno dopo ne nasce una controversia legale fra il legittimo proprietario della villa, un figlio tenuto all’oscuro dei movimenti di una madre che non aveva il diritto di vendere le opere senza consultare i trustees. Nel frattempo un leggendario mercante londinese, David Carritt, è già entrato in possesso di cinque delle otto tele – e il Goffredo prende la via della galleria Schaeffer a New York e da lì, nel ’69, passa a Norton Simon. Chissà se il collezionista californiano era davvero tentato di affiancare alla Veduta della Salute di Francesco Guardi – un gioco di specchiature sui toni del grigio, fra acque, marmi e cielo –, comprata nel 1972, con il pendant che nel 1989 gli viene proposto da Agnew, per la cifra di 700 mila dollari. Avrà giudicato l’offerta spropositata, senza rimpianti? Avrà forse pensato che i migliori affari se li era lasciati alle spalle: un altro Francesco Guardi, di certo meno amato, lo aveva pagato meno di sessantamila dollari, nel ’64, sempre da Agnew. Ma anche con il meno tipico dei tre Francesco Guardi – un Capriccio sotto un portico che funziona come una quinta teatrale, abitato da figure un po’ spettri un po’ burattini – Simon si poteva consolare, la spesa era stata di 200 mila dollari, nel 1981.
Alcuni dipinti acquisiti sono particolarmente azzeccati, come il Cane Aldovrandi del Guercino o la Veduta di Paestum di Antonio Joli; e anche il Caffè di Pietro Longhi è, tutto sommato, più ricercato del solito. Su un quadro caravaggesco, il cosiddetto Geografo, la difficoltà di raggiungere una certezza per quel che riguarda l’attribuzione dovette fiaccare l’interesse del collezionista, ma non è il solo caso in cui è documentata un’intenzione di rivendere l’opera. Per un Adamo ed Eva nel giardino dell’Eden di Solimena, Simon manda all’asta per ben due volte il dipinto, senza esito positivo. Il bozzetto di una Fede, sempre di Solimena, nonostante lo scetticismo serpeggiante fra gli studiosi, è invece un acquisto che non produce ripensamenti: d’altronde, per gli affreschi corrispondenti, nella chiesa di Santa Maria Donnalbina, De Dominici spendeva lodi inequivocabili: «può dirsi un poema eroico». Un altro colpo è l’acquisto di sei cartoni per arazzi di Giovanni Francesco Romanelli, con le Storie di Didone e di Enea: pare che James Wyatt, a Hinton House, verso il 1800-’05, avesse disegnato un salone apposta per esporli.
Un altro versante in cui Norton Simon agisce con giusta sicurezza riguarda Giaquinto. Gli capitano a tiro due splendide pale d’altare provenienti dalla chiesa di San Luigi di Palazzo di Napoli, disegnata da Vanvitelli e distrutta nel 1817 per far posto alla chiesa di San Francesco di Paola su piazza del Plebiscito. A quel tempo li aveva portati in Inghilterra un ambasciatore, Lord Berwick, ma i quattro quadri finiscono nel Novecento a Boston: poi due rimangono in America e due vanno a Londra per un’asta di Christie’s del ’75: lì è presente Norton Simon. Il collezionista arriva a un soffio dal portarli entrambi a Pasadena, poi uno andrà all’Institute of Arts di Detroit. Ma non si può sindacare sulla qualità superiore dello Sposalizio della Vergine finito in California: il teatro dei volti e delle pose proietta fasci di ombre e di tensioni su quel Giuseppe misero, pacato, ammirevole anche per il sacerdote che benedice l’unione.