La storia del Kitsch arriva da lontano. Innanzitutto il termine, quello che Walter Benjamin chiamava con piglio surrealista «l’ultima maschera del banale», appare in Germania intorno alla seconda metà del secondo Ottocento. La sua estensione storica è però elastica tanto che non vi è epoca dell’umanità che non ha prodotto oggetti, manufatti, architetture che pacificamente possono rientrare nella categoria di «spazzatura artistica». Che poi è che una delle possibili sue traduzioni. Ma, è con l’avvento delle avanguardie storiche dei primi anni venti del XX secolo che, in un certo senso, si stabilizza come condizione della cosiddetta «seconda modernità».

Con la fionda del tempo e un salto di decenni si arriva in modalità anarco-situazionista a enrico ghezzi che ebbe l’intuizione di dire, ovviamente appiccicato agli schermi: «il Kitsch è l’ultima barriera contro il disordine delle immagini». Con tale gesto intellettuale, ipersurrealista, in cui la casualità ha il suo fascino, è sembrato a posteriori compiersi, in due dei molti confini mobili del «secolo breve», uno scavo filosofico che tocca il suo apice in Italia con la pubblicazione, in un anno cruciale come il ’68, de Il Kitsch. Antologia del cattivo gusto di Gillo Dorfles. Uscito in più edizioni, nemmeno più si contano le traduzioni e la fortuna mondiale che ha avuto, la Bompiani nel conto delle riedizioni delle opere di Gillo Dorfles, guidate sotto l’egida dell’Associazione Culturale titolata al celebre filosofo del gusto, ha inteso riproporlo nell’ultima edizione curata nel 1990 dallo stesso Dorfles.

I cinquant’anni e oltre che separano il presente dal libro non sembrano aver invecchiato i contenuti, né la sistemazione antologica dei contributi selezionati. Alcuni dei saggi alla lettura non hanno perso lo smalto di allora (men che meno quelli seminali di Hermann Broch) e l’ulteriore lettura non fa che aggiornare i termini e concetti della discussione che suscitarono alla loro prima uscita.

Di certo, oggi i temi sono altri, le urgenze di allora sono arrivate quasi a un punto di non ritorno. Al tempo era il pasoliniano genocidio culturale, la mutazione antropologica a colpire la società italiana. Peraltro, arretrata e in ritardo rispetto al «sentimento» delle più progredite democrazie europee e dell’America. Nondimeno, furono le prime avvisaglie dei futuri cambiamenti climatici a suscitare prese di posizioni in movimenti artistici che vedevano la natura come possibile agente di trasformazione artistica e concettuale. Purtroppo, né l’Arte povera, né il trasversale concettualismo, riuscirono a impedire al Kitsch di proliferare in più ambiti di consumo culturale e commerciale.

Senza alcuna distinzione. L’opposizione – come Dorfles individuò – poteva arrivare dal Camp, innalzato a controcampo del Kitsch da Susan Sontag. Ma a contare, tra intellettualismi snobistici e ciarpame artistoide, sarà sempre l’uomo. Anche Kitsch. Ciò sarà oggetto di discussione questo pomeriggio, alle ore 17.30, a ingresso libero, nella Sala ex Chiesetta della Provincia di Lodi, Via Fanfulla 14, tra il filosofo e curatore delle opere di Gillo Dorfles, Aldo Colonetti, il direttore dell’Adi Design Museum, Andrea Cancellato, e la storica del Kitsch, Chiara Borgonovo.