Sarà vero oppure no? Il dubbio, malgrado tutto, s’insinua costantemente durante la lettura di Voglio proprio vedere. Interviste impossibili ma non improbabili ai grandi fotografi di Michele Smargiassi (Contrasto, pp.136, euro 24,90). Il lettore, catturato dal ritmo serrato domande/risposte nella sceneggiatura di quella che appare come un’ipotetica pièce teatrale, procede nell’equilibrio precario dell’incertezza della visionarietà delle parole che inquadrano i frammenti di presente, più spesso in un flashback avvincente: dietro Grant Park a Chicago o in un caffè di Tokyo, sulla spianata erbosa degli Champ de Mars a Parigi o lungo il bordo del Grand Canal alla periferia sud della stessa città, in un loft fatiscente di New York tra «odori di fritto, iposolfito, fumo stantio di marijuana») o sul ponte di prua di un transatlantico.
QUESTE INTERVISTE immaginarie condotte dall’autore, giornalista appassionato conoscitore di cultura dell’immagine fotografica nonché blogger su Fotocrazia, vedono come protagonisti sei grandi figure che coprono oltre un secolo e mezzo della storia della fotografia: Nadar, Eugène Atget, Tina Modotti, Robert Capa, Vivian Maier e William Eugene Smith. In ognuno di loro, inevitabilmente, c’è anche un «pezzetto» di Smargiassi? «Sì, chiedo perdono a tutti loro per aver abusato della loro vita per metterci un po’ della mia», conferma il «giornalista che viene dal prossimo secolo» come si definisce nel presentarsi ad alcuni di loro. L’idea, metabolizzata ed elaborata durante i mesi della pandemia (ma era da almeno un paio d’anni che tornava a far capolino tra i suoi pensieri) s’ispira al programma radiofonico Interviste impossibili, in onda su Radio Rai nel 1974-75. Lo stesso Smargiassi tempo fa, dovendo recensire l’ennesimo libro dedicato a Henri Cartier-Bresson, aveva trovato un divertente e giocoso escamotage: inventare delle domande (dichiaratamente improbabili) ma che calzassero perfettamente con le risposte del maestro (imprevedibilmente autentiche). «In realtà mescolo, senza consentire al lettore di riconoscerle, cose che questi fotografi hanno detto veramente, altre della loro poetica e della loro vita che sono abbastanza scontate e altre che, invece, metto io. Probabilmente loro non le hanno mai pensate né scritte o dette. Ognuno rappresenta una pulsione, ecco perché ogni capitolo ha un sottotitolo. Nadar. Ovvero, l’euforia esprime l’entusiasmo nell’avere un mezzo che fa cose che non erano mai state fatte; Atget rappresenta l’inventario, l’ordine delle cose, la sete di collezionare il mondo, mentre Tina Modotti – forse il perno centrale del libro – la contraddizione tra la fotografia e la vita; Capa è l’ansia di esserci e Vivian Maier l’ansia di essere: lei chiede alla fotografia di dirle qual è il suo posto nel mondo! Infine, W. Eugene Smith è l’ossessione del tutto».
QUANTO ALL’AMBIGUITÀ della fotografia in rapporto alla presunta verità affida il concetto alle parole di Robert Capa e, soprattutto, di W. Eugene Smith «se devo dire la verità è l’intervista che mi piace di più. Lui era un bulimico-ossessivo, un grande genio ma con problemi di stabilità personale. Non pensava tanto alla storia e alla politica, ma all’assoluto». L’onestà esiste, l’oggettività no. Riallacciandosi a questa considerazione, Smargiassi torna a rivolgersi al fotoreporter di Life che nel 1971 realizzò lo straordinario reportage Minamata sul disastro ambientale provocato in Giappone dall’inquinamento da mercurio. «Ecco, Mr Smith, cioè Gene… Non vorrei irritarla di nuovo ma… Lei in camera oscura cambia la realtà. Lo sanno tutti. Toglie dettagli, ne aggiunge, gira gli occhi dei personaggi, altera la luce». Non è difficile immaginare l’animosità della risposta. «Fammi una cortesia. Guarda il taccuino che hai in mano. L’articolo che scriverai sarà la trascrizione pura e semplice dei tuoi appunti? No, vero? Allora, perché mai tu puoi riorganizzare il tuo racconto e io non posso? Quali privilegi ha la parola che l’immagine non ha? La verità non è un oggetto che si trova in natura, è una disposizione della coscienza». Sembra aver detto (veramente) W. Eugene Smith.