Nel suo ultimo romanzo, Lontano dagli occhi (Feltrinelli, pp. 192, euro 16), Paolo Di Paolo ci porta per mano nelle strade di Roma alla fine di giugno nel 1983, per farci conoscere Luciana, Valentina e Cecilia. Nello sfondo estivo la scomparsa di Emanuela Orlandi, le elezioni politiche e amministrative, la conclusione del campionato di calcio, e una fisionomia urbana dal clima dolente e piuttosto stanco in cui si agitano le personagge e i personaggi al centro del libro.

LE TRE GIOVANI DONNE si trovano in una comune condizione: ciascuna di loro è incinta. I rispettivi compagni sono perlopiù casuali o almeno non frequentati tanto a lungo da indicare una qualche consonanza di intenti. Sono ragazzi anche loro molto diversi, l’irlandese, Ermes e Gaetano, vicini nell’imprevisto difficile da collocare dentro una esistenza che si protrae tra precarietà e occasionalità delle scelte. Potrebbero sottrarsi, ci dice Di Paolo, e in effetti non sapremo mai il peso specifico di quel venire meno o di un sì arrivato per caso. Di chiaro c’è solo l’emergere di una eventualità: se è vero che di distanze anche geografiche si rammenta, più autentico è il non raggiungersi mai per intero, anzitutto sul crinale del sé più profondo di cui tuttavia si ha l’abilità di restituire il lavorio. C’è una indesiderabilità latente, carezzata con lo spavento del non sapere che fare in particolare da parte di Luciana, Valentina e Cecilia che mostrano – sia pure da condizioni sociali ed emotive differenti – come il venire al mondo sia questione complessa e al contempo intima, perché riguarda il corpo.

C’È POI L’ORIGINE, di tutte e tutti, e come tale ha la forza di interpellare la condizione umana. L’eventualità si tinge dunque di esitazione che cuce la stoffa sentimentale di questo romanzo ostinato. Sta nella ricerca delle parole e del loro incontrarsi – qui sì il toccarsi è pieno – la capacità dell’autore di andare al nodo di quel venire al mondo, di cosa siano vita e tempo. Di quell’andirivieni che solo dopo prevede l’assumersi un ruolo in questa vicenda della nascita da parte di chi può decidere se esserci o meno: chiunque può prevederlo tardivamente tranne le madri e chi sta per inaugurare la propria esistenza terrestre senza averlo chiesto. Ciò che però sottende la narrazione non è il privilegio ontologico né la scelta morale o la differenza sessuale, è invece la relazione. C’è una costellazione plurale di legami attorno alla nascita, come c’è un arcipelago contrastante dentro ciascuno degli atolli che vagolano in mezzo al mare del proprio inconscio, della propria storia privata – è con quella che si arriva a un evento che taglia l’essere figli con il diventare genitori. E con questa non si finisce mai di fare i conti, un aggiungere e non un recidere.

LUCIANA, VALENTINA E CECILIA insegnano che non è solo l’indesiderabilità a puntellare le singole inquietudini ma una vertigine più fonda: quella di essere stati non amati, dimenticabili in un tempo molto antico, questo sì disperso e mai cantato nemmeno da Sergio Endrigo (come fa il verso il titolo del romanzo). E di avere coraggio, come molti dei personaggi di Paolo Di Paolo hanno il merito di ricordarci, di ripensare se stessi nella propria trasformazione. Da fagotti di dolore a creature amate. E attese. Prima o poi.