L’inverno del nostro scontento ricopre di foglie secche le tavole del destino. Macbeth vacilla. Pavido e indeciso. Fuori fa un freddo cane, l’umidità ti spacca le ossa e l’età non è più quella di una volta. Ma la Lady, cuore di tenebra, non ci sta. Scuote il malcapitato, sogna manto, regno e corona, afferra una scopa, sale in cattedra e, con manageriale determinazione, spazza via ogni cosa. La tabula è rasa. Le streghe son tornate e la storia può ripartire. Da dove?

Quindici anni fa, alla prima uscita, Minimacbeth di Andrea Taddei ci sembrò (o almeno così lo ricordiamo) un delizioso campo di battaglia per teatranti d’avanguardia: rigore drammatico, liturgia narrativa, pulizia formale, esemplare l’impianto scenotecnico e brillanti le curvature compositive fra estetica classica e dinamiche da terzo teatro, senza dimenticare la tradizione locale, quel recitar cantando eredità maggiante che qui, a Buti, ha casa.

E dove rimontato ora dai due interpreti per i quali Taddei l’aveva scritto e immaginato, Dario Marconcini e Giovanna Daddi, ritrova nuova vita, un divertissement eretico e un atto terroristico, antidoto al conformismo, alla presunzione e alla noia, ancorché nobile, di tanta nostrana teatralità contemporanea. Strapazzati dagli eventi e da una scrittura infallibile come un Riders Digest di illuminata potenza evocativa, ridotti a brandelli, destrutturati e torturati dai fantasmi, ombre che camminano e saltano e incalzano, la «scimmia» della follia sulle spalle (ancora agili Dario e Giovanna a infilarsi su, giù e attorno al grande tavolo passerella con gli spettatori ai lati: interno di famiglia con delitti), Macbeth e la sua Lady, in neanche sessanta minuti, abbordano l’intero corpo scespiriano.

Gli incubi, le allucinazioni, gli incantesimi, i banchetti, le mani lorde di sangue e la foresta di Birnam che avanza, con una disinvolta, sorprendente eleganza e, nel loro fronteggiarsi, con una regale consapevolezza: quella cioè che stanno recitando veramente Shakespeare e al contempo se stessi, senza distanza dall’uno né distacco dagli altri.

Così alla fine ci rendiamo conto che non comunica altro Minimacbeth, oggi forse più di ieri, col disincanto degli anni, se non la libertà del teatro, di chi lo scrive, di chi lo fa, di chi lo guarda. Perché tenebra è la notte e dal palcoscenico ogni tanto qualche lucina si accende. Si deve pure accendere. Qui a Buti capita.