Quando il 7 aprile 2014 Guillaume Agnelet, con un colpo di scena quali se ne trovano preferibilmente nei romanzi, si presentò nell’aula del Tribunale di Rennes dove suo padre Maurice veniva processato per un presunto omicidio avvenuto trentasette anni prima, Pascale Robert-Diard, era presente. Era lì, con il fiato sospeso come tutti, quando il teste fu messo a confronto con sua madre, ex moglie dell’imputato, e con il fratello minore Thomas.
Vide una semplice trama gialla dissolversi e trasformarsi in un torvo dramma di famiglia, in una storia di silenzi, segreti e ricatti affettivi degna del miglior Simenon. Scoprì che la scomparsa di Agnès Le Roux, la bella ereditiera che dell’avvocato Maurice Agnelet era stata l’amante, aveva travolto e distrutto le vite non solo dei familiari della vittima ma anche dei parenti del presunto carnefice.
L’affaire Le Roux calamitava già l’attenzione dei media e dei lettori per il suo intreccio, per l’enigmatica personalità dell’imputato, per le lunghe traversie giudiziarie che avevano costellato il caso, per la determinazione della madre di Agnès, Renée Le Roux, ostinata a non arrendersi nei decenni che passavano e nei quali aveva assunto investigatori e finanziato ricerche sino a finire in rovina pur di portare di fronte a una corte l’uomo della cui colpevolezza era certa. La deposizione di Guillaume offrì però al processo e al caso una consistenza insospettata.

Dopo quella drammatica testimonianza, la scrittrice incontrò più volte Guillaume: gli pose domande, ascoltò i suoi racconti, si fermò sui suoi ricordi. Partendo dalla sofferenza della famiglia Agnelet, di cui Guillaume parlò al processo, indagò più in profondità, poi scrisse un libro breve e intenso, La deposizione (Einaudi, traduzione di Margherita Botto, pp.125, 17.00), che permette di guardare a quel caso da un’angolazione nuova, assolutamente inedita.
Agnès Le Roux scomparve tra il 25 ottobre e il 2 novembre 1977. Né il corpo né la macchina furono mai ritrovati. Aveva ventinove anni e dal padre aveva ereditato una quota del Palais de la Mediterranée, il secondo casinò di Nizza. Jean-Dominique Fratoni, già padrone dei principali casinò della città e sospetto di legami con la malavita, voleva comprarlo a tutti i costi. Madame Renée si opponeva. Con un improvviso voltafaccia Agnés, convinta dal suo amante, decise invece di vendere. I tre milioni di franchi ricevuti da Fratoni furono messi su un conto comune suo e di Agnelet che pochi giorni prima della scomparsa di Agnès aveva spostato la somma su un altro conto a suo solo nome.

L’avvocato finì subito in testa alla lista dei sospetti. Ne uscì grazie all’alibi offertogli da un’altra amante, Francoise Lausseure, anche lei ricca ereditiera. Fu comunque arrestato nell’83, al ritorno dal Canada dove era andato a vivere con la nuova amante, ma fu liberato dopo pochi mesi senza rinvio a giudizio. L’omicidio, in mancanza del cadavere, non era certo. Gli elementi a carico troppo fragili per reggere la prova di un processo.

Le indagini ripresero nel 1999, sulla base degli elementi raccolti da Renée Le Roux, e stavolta Francoise Lausseure ammise di aver fornito vent’anni prima un falso alibi. Il processo si svolse solo nel 2006. Guillaume si spese più di ogni altro per aiutare il padre. Lo prese in casa con sé, passò mesi a spulciare le carte, costruì le deposizioni del padre impersonando il pm, costrinse Maurice a ripetere le risposte fino a che non suonavano convincenti. Nonostante le prove indiziarie sembrassero schiaccianti, Agnelet venne assolto ma l’anno seguente il processo d’appello ribaltò la sentenza e lo condannò a vent’anni. La battaglia legale si spostò presso la Corte europea dei diritti dell’uomo, che stabilì – in due diverse sentenze – come i diritti della difesa fossero stati violati. Così, ordinò di ripetere il processo.
È in questo terzo processo, nel 2014, che Guillaume si presentò a sorpresa e, al prezzo di una rottura con l’intera famiglia, dichiarò di aver saputo sia dal padre che dalla madre che era stato Maurice a uccidere Agnès e a occultarne il corpo. La Corte condannò di nuovo l’ormai quasi ottantenne Agnelet, che continuò a proclamarsi innocente. Questa la vicenda, che si è svolta sotto gli occhi attenti e spesso voyeuristici dei media e che André Techiné ha portato sullo schermo. Pascale Robert-Diard la ricapitola guardando non al palcoscenico ma alla tragedia silenziosa che si consumava dietro le quinte. Racconta la parabola di quattro persone, la moglie di Maurice e i tre figli, la cui intera esistenza venne condizionata e tenuta in ostaggio dall’assenza incombente del marito e padre, dall’ombra di quel delitto inconfessato, dall’impossibilità anche solo di parlarne apertamente.

La scrittrice spia il percorso della moglie, soggiogata da Maurice, dei due fratelli sopravvissuti, smarriti nel loro labirinto d’angoscia, del figlio maggiore Jerome, che subito prima di morire spedì una cartolina tremenda: «I miei genitori sono degli assassini».

La domanda che si pone la scrittrice è essenziale: cosa ha spinto Guillaume a testimoniare contro il padre? «Il rimorso di coscienza», risponde il pm, ma è una conclusione superficiale, buona per una requisitoria, non per chi voglia capire. Prima di decidersi al passo finale, Guillaume chiese più volte ai genitori di parlare chiaramente con lui, ricordò a entrambi quel che avevano confessato anni prima. Andò a sbattere sempre contro un muro di silenzio e di negazioni, perché la verità non poteva né doveva venire pronunciata, neppure in privato. È questo silenzio, questa rimozione che permise una complicità senza ammissione, corrodendo come un acido le vite degli Agnelet.

Guillaume testimoniò quando si rese conto che era la sola via che gli restava per sfuggire al sortilegio di quel silenzio: Pascale Robert-Diard riassume il dramma in uno stile asciutto che rende il quadro ancor più tremendo perché non si concede alcuna deriva sentimentale, e dimostra che il giornalismo può trasformarsi, nelle mani giuste, in un genere letterario.