La società industriale, specialmente nella sua fase fordista, si è costruita attraverso un’idea di ordine sociopolitico che all’individuazione e alla separazione dei soggetti sociali, aggiungeva una loro gerarchizzazione: le classi dominanti e dirigenti da una parte, i «diretti» dall’altra, in una posizione di subordinazione e dipendenza. Questo ordine gerarchico e dualista della modernità ottocentesca e novecentesca trovava nei mass media il suo puntello e il principale luogo di rappresentazione: giornali, radio, cinema e poi la prima televisione degli anni Cinquanta, erano canali unidirezionali. I pochi – politici, giornalisti, manager, registi ecc. – decidevano i contenuti, i molti – il pubblico – li fruivano.

Politica e media erano così avvolti in un’aurea magica: la distanza, la separatezza, la sproporzione nelle capacità decisionali e nella visibilità, contribuivano a rendere quelle dimensioni dei luoghi sacri, animati da figure quasi sacerdotali. La realtà di tutti i giorni, quella esperita dalle persone «comuni» non era la Vera realtà: la realtà più profonda, ove la Verità di manifestava, era quella di questi luoghi lontani, rappresentati «dall’alto verso il basso» dai mass media, con l’intento di illuminare i comuni mortali. Lo stile sobrio dei politici, il fascino misterioso dei divi del cinema, il linguaggio colto e forbito degli intellettuali: quella la Verità e la sapienza.

Aurea sacra

Tre libri recentemente pubblicati e apparentemente dissimili tra loro per la tematica trattata, ci aiutano a comprendere quanto questo scenario sia ormai totalmente superato: mentre comunicazione e politica perdono del tutto la loro aurea sacra e nuove disuguaglianze si consolidano, le gerarchie che hanno plasmato la realtà del potere e della comunicazione nel Novecento si ribaltano.

È la vita quotidiana con il suo senso comune, i suoi personaggi, le sue emozioni «di pancia» e le sue miserie a presentarsi ed essere presentata come la realtà. Il primo libro di questo percorso ideale è La democrazia del talk show (Carocci, pp. 252, euro 18) scritto dal sociologo Edoardo Novelli che ci trasporta in quel mondo della televisione dal quale questa mutazione ha avuto inizio. Attraverso un linguaggio chiaro e una ricostruzione puntuale, il libro analizza la genesi e le trasformazioni della telepolitica in Italia: l’ipotesi interpretativa è che non siano gli spot o il marketing elettorale ad aver plasmato l’identità della politica e della sfera pubblica contemporanee, ma il talk show. Un dato cattura immediatamente l’attenzione: l’Italia è il paese europeo nel quale la presenza dei talk show politici è quantitativamente più significativa.

Agone mediatico

La comunicazione televisiva italiana è quasi un ininterrotto talk show che ruota sempre attorno alle medesime figure che abitano ormai permanentemente l’agone tele-mediatico (un esempio su tutti, quello di Matteo Salvini). La chiave interpretativa scelta da Novelli è quella incentrata sul binomio televisione\politica: se fino agli anni Settanta la politica era autonoma e più potente della televisione, in grado di comunicare ai cittadini principalmente con la militanza, le sezioni, i comizi, gli approfondimenti degli intellettuali e dei giornali di partito, con gli anni Ottanta il rapporto comincia ad invertirsi.
La Repubblica dei partiti cessa di esistere e le tradizionali forme di integrazione e comunicazioni si sgretolano: i leader in quanto persone e personaggi vengono in primo piano e cercano disperatamente un canale di comunicazione più veloce, immediato e in grado di fargli raggiungere velocemente gli elettori.

Tele-tribune

La televisione diventa gradualmente più potente rispetto alla politica, ma non è una televisione animata da giornalisti «cani da guardia», avversari del potere, ma da professionisti dello spettacolo, mossi principalmente dalle esigenze degli ascolti: politica e televisione stringono un patto di reciproca convenienza, così che la politica diventa televisione, melodramma, commedia e la televisione rappresentazione continua della politica; non più secondo i codici sacrali e pedagogici di «Tribuna politica» ma attraverso quelli decisamente «pop» di «Porta a Porta».
Il talk show è il genere che guida e rende possibile questa telepolitica all’italiana mettendo al centro il politico come personaggio e soprattutto la gente chiamata continuamente ad intervenire, votare, esprimersi, testimoniare. Prevalentemente secondo i linguaggi del senso e del luogo comune piuttosto che dell’argomentazione razionale. Così, l’ultima metamorfosi del talk show politico è quella della social tv: la televisione chiama in causa i social network e i loro utenti commentano e intervengono sulla e nella televisione.

Alla caduta della distinzione tra «uomo pubblico» e persone comuni, corrisponde l’ascesa dell’interrealtà, una realtà nella quale la vita fuori e dentro lo schermo, sia di una televisione sia ancor di più di uno smartphone, si intrecciano strettamente. Questo è il tema del libro dello psicologo Giuseppe Riva I social network (il Mulino, pp. 192, euro 13). Si tratta di un volumetto che ha due chiavi di lettura: la prima e più immediata è quella di una guida che spiega con chiarezza, semplicità e rigore scientifico tutti i meccanismi che caratterizzano il funzionamento e gli effetti sociopsicologici di Facebook, Twitter e così via.
Con l’obiettivo di rendere più consapevole ed attento il loro uso, un uso che ha totalmente destrutturato i confini tra pubblico e privato, tra emittente e ricevente, tra i luoghi un tempo separati della politica e della vita quotidiana. Il secondo piano di lettura è meno immediato: il lavoro di Riva analizza una «rete pop» che nasce, si sviluppa e prolifera oltre gli ideali libertari e le contro-culture che avevano animato i tempi pionieristici della prima Internet, quella animata dai pochi e nella quale era possibile non solo immaginare nuove utopie democratiche ma anche vivere una vita virtuale totalmente separata da quella reale.
Il web 2.0 di «facebook e gli altri» è il dominio di grandi imprese commerciali: la possibilità di rappresentare e rappresentarsi la propria vita come una «magnifica» epopea da reality show e quella della politica e dei cittadini di rapportarsi orizzontalmente e immediatamente l’uno all’altro, sono pagati con l’appropriazione a fini di marketing delle proprie informazioni e si svolgono secondo le regole dettate da soggetti commerciali.

Interrealtà

La frantumazione dello spazio pubblico operato dalla telepolitica si prolunga così nella Rete, che se da una parte offre nuove opportunità di partecipazione e auto-organizzazione, dall’altra rischia di veder soffocato questo potenziale a causa della debolezza delle istituzioni nel regolamentare secondo principi democratici le dinamiche dei social network: a questo problema è dedicato il terzo libro del nostro percorso di lettura, Internet, i nostri diritti (Laterza, pp. 136, euro 12), di Anna Masera e Guido Scorza, giornalista la prima e giurista il secondo.

L’intento di questo breve libro è principalmente quello di presentare e discutere la «Dichiarazione dei diritti in Internet», approvata con due mozioni dalla Camera dei Deputati il 3 Novembre 2015. L’idea della Dichiarazione è quella di stabilire dei principi di base atti a ispirare non solo la successiva produzione legislativa in materia ma anche altri futuri documenti nazionali e internazionali con l’intento di costituzionalizzare e rendere più democratica l’«interrealtà».
Anche questo testo è scritto in modo chiaro ed essenziale e mette al centro l’idea che il rilancio della cittadinanza passa oggi non solo per la costruzione di nuovi diritti e doveri che tengano conto delle evoluzioni tecnologiche e culturali della società; ma anche per l’acquisizione di una rinnovata consapevolezza degli effetti sulla propria vita dell’uso dei social network (pensiamo alla completa ridefinzione della privacy o della libertà di espressione).

Trasparente e solo

L’epoca della telepolitica e dell’interrealtà, della continuità tra televisione e internet, dell’integrazione tra sfera pubblica e privata, tra vita quotidiana e poteri è innanzitutto l’epoca della gente: l’uomo comune che si mette ed è messo costantemente in vetrina e che assurge al rango di unico personaggio attraverso il quale i politici e in generale le classi dirigenti possono e debbono legittimamente presentarsi. Tutto sembra ormai estremamente trasparente e democratico. Eppure, contemporaneamente, quelli che compaiono, pubblico e politici, giornalisti e audience, sembrano tutti le grandi comparse di uno spettacolo preparato in un altrove ancora più remoto e tuttavia realissimo.

Allo stesso tempo, i fautori della retorica più radicale della sovranità della Rete e dell’interrealtà sono spesso quelli che più si sottraggono alla sua presunta trasparenza: Gianroberto Casaleggio o anche Mark Zuckerberg ne sono due chiari esempi. Questo mondo che mette al centro la gente e la vita quotidiana sembra allora vivere nell’illusione del Vero e del verosimile ma vede sempre più sfuggente l’orizzonte della Verità e la possibilità reale di incidere sul Potere, nonostante le possibilità offerte anche dalle tecnologie digitali.