Il giornalismo è morto, viva il giornalismo (ai tempi della Rete).
Proprio nei giorni in cui Twitter mostrava tutta la sua potenza informativa a Ferguson – la cittadina del Missouri in rivolta dopo l’uccisione a sangue freddo di un diciottenne nero – diffondendo le testimonianze e notizie dal campo e smontando, al tempo stesso, la cornice con cui inizialmente i grandi media avevano inquadrato l’evento, in Italia la piattaforma di cinguettii era teatro di polemiche di basso livello tra alcune star del giornalismo nostrano. Un copione già visto altre volte, che sembra sempre voler trasformare quella frenetica, aperta e imprevedibile agorà digitale costituita da Twitter nel salottino di cartapesta dei nostri talk-show. E questo a tre anni da quando il reporter di Npr Andy Carvin ha mostrato al mondo come si poteva inventare un nuovo modo di fare informazione «curando», ovvero selezionando, verificando e rilanciando, i tweet sulla Primavera Araba.
Perché purtroppo è ancora questo il modo di reagire di una parte del giornalismo alla doccia gelata (altro che i secchi d’acqua narcisisti dell’«Ice Bucket Challenge») della rivoluzione digitale che sta sconvolgendo tutto, a partire dai media. Ovvero, sui nuovi mezzi ci va messa la bandierina, ma restando sempre uguali a noi stessi. Nel rapporto coi social media questo arroccamento salta agli occhi. Salvo rare eccezioni, per gran parte delle testate l’atteggiamento è il seguente: bisogna esserci, in un’ottica di mera moltiplicazione dei canali di una testata. L’idea di fondo è sempre quella del broadcasting, della tv: diffondere il proprio messaggio. Solo che questa volta non funziona più, e il risultato, nel migliore dei casi, è una strategia di contenimento di orde di utenti incontrollabili, spesso imbufaliti con la casta (un blocco semantico che a torto o a ragione incolla giornalismo e politica), che si comportano spesso in modo del tutto diverso dalle aspettative o dall’immagine che ha il giornale del proprio lettore ideale.

Tutto quel che vuoi

Eppure non è inevitabile che sia così. L’Economist ha creato da tempo «eventi editoriali» online in cui si apre realmente alla conversazione con i lettori attraverso chiacchierate video su Google+ Hangout, a delle domande e risposte via Twitter, addirittura a dei confronti con gli utenti attraverso la formula del «Chiedimi quello che vuoi» («Ask Me Anything») del sito di frontiera Reddit. Per inciso, anche alcuni partiti che puntano molto sulla partecipazione dei cittadini, come lo spagnolo Podemos, hanno iniziato a usare Reddit per avere discussioni il più possibile libere e insieme efficaci con il proprio elettorato.
È invece di poche settimane fa la notizia che il «New York Times» e il «Washington Post» hanno invece annunciato un progetto insieme a Mozilla, la stessa fondazione del browser Firefox, per costruire una piattaforma open source che permetta ai lettori delle due testate di contribuire e partecipare in modo sensato e utile alle notizie e all’informazione prodotta, attraverso discussioni, immagini, link, andando ben oltre alla famigerata sezione commenti messa in fondo agli articoli, che anche quando non diventa una fossa dei leoni raramente riesce ad aggiungere valore o interesse per alcuno.
Sia chiaro, il giornalismo come modello economico tradizionale è in caduta libera ovunque, e nessuno ha la bacchetta magica per risollevarlo, ma in Italia la crisi è gravata da un ulteriore fardello culturale. Che si potrebbe sintetizzare nel malaugurato motto «Sempre meglio che lavorare», battuta presuntuosina che circolava ancora fino a qualche tempo fa nell’ambiente per indicare quanto era bello fare il giornalista – e che oggi, a fronte di tagli, prepensionamenti, contratti di solidarietà, schiere di precari sottopagati, proposte di equicompensi da fame per i freelance presentate come vittorie epocali e tempeste di insulti di ex-lettori contro la «casta», nessuno ha più il coraggio di pronunciare. Ma il fatto è che quella mentalità è stata spazzata via dalle esigenze di un giornalismo nuovo, che richiede specializzazione, studio, contaminazione con altre discipline, che si mescola sempre di più con gli scienziati dei dati, i grafici, gli informatici, gli analisti dei social media. Però anche la chiave tecnologica – che pure è centrale in qualsiasi discorso sul giornalismo di oggi – non è sufficiente per farci uscire dalle sabbie mobili in cui i media tradizionali stanno sprofondando, e in modo tanto più rapido quanto più si agitano a rincorrere le ultime mode, che siano il click-baiting (i titoli sparati e ingannevoli per raccogliere tanti click) o la proliferazione sulle loro colonne di blogger tutti uguali (tanto non si pagano).
Infatti credo che il punto qua sia la rilevanza delle notizie e dei contenitori informativi che si pubblicano. Per rilevanza intendo due aspetti differenti. Il primo, che può apparire ovvio ma non lo è mai nella pratica, risponde alla domanda: sto usando il contenitore giusto per questo contenuto? Ovvero: perché, a meno di avere a che fare con un oratore alla Christopher Hitchens, ostinarsi a pubblicare un videocommento di tre minuti di un giornalista a una notizia che potrebbe essere spiegata in 20 secondi con un articolo, un grafico, o in un altro modo ancora? O viceversa perché usare una gallery (sì, lo sappiamo, fanno più click) quando non sarebbe necessario? Che si tratti da un lato della riproposizione forzata di editoriali non richiesti (che però soddisfano l’ego dei giornalisti) o dall’altro della superficiale adesione a schemi nuovi (del tipo: facciamo l’infografica anche se non abbiamo dati significativi perché così sembriamo più cool), la domanda che si sta eludendo è: sto davvero servendo i miei lettori?
Il secondo aspetto della «rilevanza» di un articolo o di una notizia è invece un po’ più profondo e in qualche modo drammatico. Ovvero: quello di cui stiamo parlando su una testata, la scelta delle notizie, il modo in cui sono tagliate e le informazioni che stiamo dando sono davvero rilevanti per i lettori e per la loro vita? Sempre per restare nel pratico: perché in servizi legati a temi spesso complessi mancano sempre quelle informazioni di contesto che evitano di trasformare l’articolo in un messaggio in codice per addetti ai lavori? Perché i giornali traboccano di dotte analisi o sagaci corsivi, ma si fa fatica a trovare delle cronache circostanziate e chiare sui fatti? Se la tua testata non si occupa di moda, spettacolo o simili, siamo sicuri che abbia senso dare tanta visibilità al gossip sui Vip? E il fatto che una gallery di «fuffa» riceva tanti «click» significa davvero che sia apprezzata dai lettori? E via dicendo, gli esempi potrebbero continuare.
Non è facile per nessuno, sia chiaro, ma un punto di partenza potrebbe essere proprio usare i nuovi canali digitali, che si tratti delle pagine Facebook, degli altri social media, delle interazioni provenienti dagli utenti come un’occasione per ascoltare davvero le loro esigenze. Ovviamente queste possono essere diverse a seconda del blocco sociale o di interesse a cui ci stiamo rivolgendo.

Un problema di relazione

Da anni si parla della Rete utilizzando la metafora della conversazione, ma troppo spesso si è scambiato questo concetto come l’hashtag da inseguire su Twitter o il modulo «Mandateci le vostre foto». Al di là delle iniziative estemporanee, si fa molta fatica a costruire qualcosa di duraturo e sensato insieme ai lettori. Tornando al citato progetto del «New York Times», del «Washington Post» e di Mozilla, l’obiettivo in quel caso è costruire una piattaforma centrata sulle esigenze degli utenti, stringere il legame con loro, alzare la qualità delle discussioni online, e in ultima analisi migliorare la relazione fra lettori ed editori. Questo potrebbe essere uno – e non certo l’unico – dei modi con cui provare a ridisegnare il giornalismo ai tempi della Rete, come si dice. Ce ne sono anche altri, ovviamente. Ma certo una visione più umile, di servizio, del ruolo dei media potrebbe essere già un buon punto di partenza. L’alternativa è condannare il giornalismo o, meglio, le enclavi che resisteranno all’irrilevanza.