C’è più di qualche indizio a suggerire che, se non fosse stato interrotto da una morte giunta troppo presto, Michel Foucault avrebbe diretto le sue analisi genealogiche al terreno dell’animalità. Se «tracce di animali» emergono in diversi snodi del pensiero foucaultiano, dalla biopolitica intesa come presa del potere che emerge dalla stretta su corpi umani e animali o nei nessi rilevati tra follia e animalità, sono gli ultimi corsi tenuti al Collége de France sul governo dei viventi a mostrare quanto la riflessione sull’animale stesse diventando sistematica e produttiva per il filosofo francese. Una linea di ricerca inaugurata da Foucault, dove si sono inseriti importanti pensatori contemporanei, da Agamben a Esposito passando per Braidotti e Butler, impegnati a delineare il ruolo del non umano nella politica contemporanea.

Ed è da questa temperie intellettuale che prende le mosse il lavoro di Benedetta Piazzesi con il volume Così perfetti e utili. Genealogia dello sfruttamento animale (Mimesis, pp. 184, euro 18) dove l’archeologia del sapere e i suoi strumenti d’analisi sono utilizzati per sondare la storia della zootecnia e mostrare la natura speculare dei processi di domesticazione: ammansire la bestia e renderla produttiva ha voluto dire storicamente rimarcare l’archetipo di una separazione fallace per cui l’uomo è diverso dall’animale. Un’idea, afferma l’autrice, naturalizzante e prescrittiva ma che rappresenta un prodotto storico e come tale va passato al vaglio di una critica serrata utilizzando proprio le categorie del filosofo che per primo ha messo in luce la doppia natura del potere: assoggettare e soggettivare, reprimere e nel medesimo tempo produrre dispositivi e reticolati che tengono insieme le società.

Scovare il potere anche laddove sembra completamente trasformato. Questa può considerarsi una delle più importanti eredità che ci ha lasciato Foucault e che l’autrice raccoglie per ripercorrere quella «storia senza storia» degli animali nei secoli cruciali che vanno dal XVI al XX secolo. Analisi diacronica che permette di svelare come già nel sistema autarchico della villa cinquecentesca gli animali obbedivano a un «utilitarismo cosmico»: ogni specie era tanto più apprezzata quanto più funzioni relazionali riusciva a intessere con il sistema di riferimento, come il bovino che durante la rivoluzione agricola era forza motrice, maschio riproduttore, carne da macello e prima ancora, produttore di letame, elemento preziosissimo per permettere al sistema agricolo di rigenerarsi a ogni stagione.

Tra Settecento e fine dell’Ottocento, con l’avvento della chimica, delle scienze veterinarie, di nuove architetture dello stabulare e del contenere, l’autarchia lascia il posto a una dinamicità per cui ogni elemento viene valutato dal sistema zootecnico in base alla sua produttività sull’onda della nuova retorica della nazione. Una regolamentazione igienica, produttiva e morale delle vite animali che divengono elementi seriali generati dal nuovo potere zootecnico da sfruttare massivamente.

Il libro si chiude arrivando alla contemporaneità, con l’analisi della nuova retorica dell’industria zootecnica che prende il nome di «benessere animale»: il moderno allevamento biologico che è in grado di «trasformare l’alimento in prodotto ideologico». Qui gli animali vengono non solo gestiti nei corpi ma anche nello spirito, a loro viene riconosciuta una psiche, una vita emotiva che interpella il consumatore sull’eticità delle sue scelte culinarie. Il potere si trasforma così alle richieste di un nuovo «sistema umanitario». La domesticazione come forma biopolitica di controllo e manipolazione dei corpi, appare allora come un potere sulla vita più che sulla morte, poiché come ebbe da scrivere Foucault nel celebre La nascita della clinica: «lo sguardo che avviluppa, accarezza, dettaglia, anatomizza la carne più individuale, e rileva i suoi morsi segreti, è lo sguardo fisso, attento, un po’ dilatato che, dall’alto della morte, ha già condannato la vita».

Ma «là dove c’è potere c’è resistenza» ed è questa un’altra lezione foucaultiana che chiude il libro aprendo a futuri campi di ricerca, quelli dell’agire animale inteso come intenzionalità: se antropologi e sociologi non hanno mancato di rilevare come i soggetti mettono in pratica forme più o meno efficaci di risposta ai processi politici di cui sono parte (un campo d’analisi che oggi va sotto il nome di «agency/agentività»), gli animali non umani con altri linguaggi non smettono di porre in atto forme di resistenza al giogo che li stringe; animali in fuga, scalcianti e scalpitanti che entrano nelle cronache come elementi un po’ freak di un mondo alla rovescia ma che, come osserverebbe Foucault, altro non sono che un tentativo disperato di spezzare quel circolo ricorsivo dell’autoaffermazione tra sapere e potere dove si genera il controllo dei corpi ribelli: in questo spazio ancora inesplorato si aprono nuove vie di fuga, simboliche e materiali, scatti verso la liberazione.