Quando se ne va qualche persona che è stata importante e cara per noi, rimarrà nella nostra mente per sempre ma si porta via un pezzo di noi stessi. Così è per Rossana, come si è visto dalle parole di cordoglio sulla rete di tante e tanti che l’hanno conosciuta e amata per quello che era, anche solo leggendo i suoi articoli e i suoi libri. Per chi l’ha avuta compagna di una vita intera la perdita è una lacerazione privata difficile da dire. Compagna, scrivo, anche come parola della politica, pur se è capitato di essere su posizioni diverse o contrastanti. Ma intendo innanzitutto compagna di sentimenti e di cultura.

VENIVAMO entrambi dalla scuola di Antonio Banfi e in quelle aule dove lui insegnava la conobbi tra l’autunno del 1943 e la primavera del ‘44. Ma era di due anni maggiore di me, era un anno avanti all’università e io ero solo un diciassettenne precoce e avevo dovuto in qualche modo distinguermi per mettermi alla pari di quella ragazza che nettamente spiccava tra le sue coetanee. E ricordo bene quando le parlai veramente da compagno. Mi ritenevo comunista dal liceo, ero andato a filosofia per Banfi, già lavoravo per il Fronte della Gioventù (allora era il nome della organizzazione dei giovani di sinistra impegnati sulla pace ndr) con Gillo Pontecorvo, dopo pochi mesi sarei stato arrestato.

Ma lei non sapeva della mia attività e io poco della sua. Non so bene di che parlammo ma ho netta nella memoria quell’indimenticabile volto di ragazza con gli occhi intelligenti e scrutatori. Allora, ciò che destava l’ammirazione di quel ragazzo piuttosto presuntuoso ma non stupido (e poi sempre fino a che è diventato un vecchissimo uomo) era la scoperta, dietro quel viso delicato come un cammeo, di un vigore intellettuale e di una fermezza di volontà evidenti ma anche di una inespressa inquietudine. Fu questo, per me, il fondamento di un affetto oltre ogni distanza dettata dalla vita. Ed è questo, credo, il tratto che ha fatto grande Rossana.

NON FU MAI facile la vita nel nostro vecchio Partito di coloro che erano stati formati dalla lezione di Antonio Banfi. Non solo perché il razionalismo critico non collimava, anzi strideva con lo storicismo prevalente nella cultura negli intellettuali del gruppo dirigente del partito. Le difficoltà nascevano anche da ciò che aveva mosso buona parte degli allievi di Banfi durante la seconda guerra mondiale a farsi comunisti, e cioè quel testo su «moralismo e moralità» che Rossana ha ricordato poco tempo fa quando insieme intervenimmo ad un ricordo organizzato nell’ambito del Senato del nostro maestro.

ERA UN TESTO, come ha spiegato Rossana, che dimostrava la sclerosi di una morale costruita da dogmi pensati come eternamente validi e propugnava la necessità di un’etica dell’impegno su ciò che le necessità dello svolgersi della vicenda umana suggerissero ad una visione critica della realtà. E il dilemma di fronte alla guerra per molti giovani cresciuti sotto il fascismo era, ricordava Rossana, l’essere o no a favore di una causa considerata umanamente giusta anche se questo comportava la sconfitta della nazione nel cui culto si era stati cresciuti.

E se comportava di stare con chi sosteneva quella causa anche con mezzi da giudicare sbagliati. Quell’articolo era una chiamata implicita a schierarsi attivamente contro il fascismo e il nazismo, per la libertà, per la giustizia sociale. Tutti gli allievi vecchi e nuovi lo seguirono nella Resistenza, ma solo i nuovi nel Partito comunista. Ma trovare la motivazione morale personale di una scelta politica di fronte al succedersi degli eventi storici contraddiceva a quanto di dogmatico, nonostante lo storicismo, resisteva nel Pci innanzitutto nella anteposizione su tutto del ruolo del Partito.

AD OGNI TORNANTE si trattava di scegliere e fummo insieme fino al ’68. Ci eravamo ritrovati nella segreteria della federazione milanese del Pci rinnovata dopo la svolta dell’ottavo congresso, anzi il nono perché nella organizzazione di Milano la svolta incominciò un congresso dopo.

Rossana veniva dalla esperienza straordinaria della casa della cultura che lei aveva aperto ad ogni voce culturale degna nella incomprensione dei vecchi dirigenti, io venivo dalla direzione dell’Unità milanese. Fu una esperienza che lei ricorda con entusiasmo nelle sue memorie ed io ricordo lei, ma non gliel’ho mai detto, come la voce più commovente nel farsi carico delle minuzie di un lavoro di apparato che lei viveva scovandone il significato umano.

Negli anni successivi al ‘68 non trovò sufficiente, assieme ad altri compagni anche a me cari, la vicinanza di Longo alla lotta degli studenti, l’appoggio a Dubček, la ripulsa (per la prima volta) della repressione sovietica a Praga anche se era stato Longo, ancora vivente Togliatti, a volerla come responsabile nazionale della cultura da cui sarà allontanata proprio per opera dei critici di Longo che lo consideravano troppo di sinistra.

L’hanno chiamata una comunista eretica. Eretici sono stati, semmai, coloro che hanno snaturato l’idea di una società in cui la libertà di ciascuno corrispondesse alla libertà di tutti. Al contrario, la sua ricerca è stata per quel comunismo che ritenevamo di aver abbracciato, magari sperandolo dove era improbabile che fosse, come nella rivoluzione culturale cinese o nella pur eroica esperienza cubana. Ma mai smettendo di cercare, col manifesto.

Ed è perciò che è stata ed è tanto amata. Vedo che è stato scritto del suo essere come di ferro. Non so se sia giusto. Penso che la sua forza fosse quella di essere un fermissima coscienza inquieta, senza illusioni sul genere umano ma senza smettere di amarlo tanto da volerlo cambiare.