Negli ultimi tempi – forse l’avete notato anche voi – il termine «problema» nel lessico mediatico e politico si usa sempre di meno. Lo sostituisce a volte la parola «criticità» (di solito quando la situazione è brutta davvero e non si intravede neppure uno straccio di soluzione) e soprattutto, con frequenza sempre maggiore, la più ottimista «sfida», spesso nella versione inglese challenge. Dalla ricerca di un sistema che contrasti il cambiamento climatico, o per lo meno che garantisca la sopravvivenza della specie umana, fino al tentativo di dimostrare la propria esistenza nel mondo pubblicando un selfie in bianco e nero su Instagram, tutto è challenge, una sorta di tenzone individuale e collettiva a cui veniamo quotidianamente chiamate e chiamati.

Ci sono casi, però, in cui la parola “sfida” risulta adeguata. È difficile definire in altro modo, per esempio, il progetto della rivista Inque, che in questi giorni e fino al 20 agosto sta cercando finanziatori sulla piattaforma di crowdfunding Kickstarter.

Dieci numeri in tutto, uno all’anno, dal 2021 al 2030; niente pubblicità; nessuna versione digitale; tiratura limitata; grande formato; collaboratori famosi come Chimamanda Ngozi Adichie, invitata a selezionare il meglio della nuova narrativa africana o Jonathan Lethem, che pubblicherà a puntate su Inque il suo nuovo romanzo (e come Tom Waits, Tilda Swinton, Werner Herzog, Kate Tempest, Ocean Vuong…); nessun condizionamento esterno: questo, in poche parole, il programma di Dan Crowe, compulsivo fondatore di riviste sofisticate e intelligenti (Zembla, Avaunt, Port) e di Matt Wiley, che oltre ad avere affiancato Crowe in varie imprese, è stato per cinque anni art director del New York Times Magazine ed è ora socio di Pentagram, uno degli studi di design più noti nel mondo. Due persone che il mestiere lo conoscono e che sul sito di Inque non hanno paura di scrivere: «Le riviste piacciono ancora alla gente. Se le vendite sono calate, non è perché manca il pubblico, è perché mancano le pubblicazioni vere».

Sono frasi che si leggono volentieri in tempi faticosi per la stampa, in Italia e fuori (è recente la notizia che il Guardian, uno dei rarissimi giornali la cui versione online resti completamente gratuita, taglierà 180 posti di lavoro per «la insostenibile situazione finanziaria provocata dalla pandemia»).

Così come si legge volentieri quello che Crowe ha detto in un’intervista sulla rivista AnOther per spiegare i motivi che lo hanno spinto a lanciarsi nella nuova avventura: «Credo che la collaborazione sia l’essenza del gioco, adesso. Dobbiamo lavorare insieme, condividere, trattarci bene fra noi, capirci di più. Non è solo una postura esterna: il nostro sistema tardocapitalistico sta collassando e si riesce a fare qualcosa solo se lo si fa con in mente un obiettivo più grande, e lavorando in gruppo, in pochi o in tanti non importa. E questo si fa facilmente con una rivista, che in fondo non è altro che una serie di collaborazioni. È anche più divertente, oltre tutto».

E ancora: «Cosa rende speciale una rivista su carta? Il rapporto tra parole, immagini, design, carta e formato è stupefacente, ha un potere unico e non si può cancellare o modificare. Quando si chiede a grandi autori di scrivere, c’è il senso della storia che prende forma sulla pagina sotto i tuoi occhi, in tempo reale. Questo è quello che cerco, come lettore».

Mentre scriviamo, la cifra raccolta per Inque è di circa 110.000 sterline contro le 150.000 necessarie per il finanziamento del primo numero. Se l’obiettivo non viene raggiunto, la rivista non si farà. Una sfida, appunto.