L’idea che il calcio abbia vissuto una sua epoca verace, innocente e pura è una delle idiozie più dannose che si siano mai sentite e cammina nelle nostre menti a braccetto con un’altra, quella secondo la quale il calcio è assimilato al concetto di passione, relegando così fuori dall’analisi del contemporaneo l’industria culturale del capitalismo con il più grande impatto mondiale. I tic della sinistra sono noti e tra questi va annoverata la tendenza a rifiutare la contemporaneità in nome di qualche rifugio di un passato neanche bene individuabile temporalmente: «parole senza idee», come direbbe Furio Jesi, perché in realtà il calcio, innocente, non lo è mai stato. Nasce con il capitalismo, ne segue le traiettorie, viene contaminato dal capitalismo che si fa urbanistica e «non luogo», dal neoliberismo e dalla finanziarizzazione, dal servilismo nei confronti del potere, celebrato ipocritamente alla morte.

Questa lettura, del calcio come strumento sociale del capitalismo in quanto suo figlio diretto, è solo una delle tante e possibili letture di Uccidi Paul Breitner, frammenti di un discorso sul pallone (Alegre, pp. 288, 16 euro) di Luca Pisapia. L’autore sfoglia il libro del calcio degli ultimi 40 anni, dal mondiale insanguinato argentino del 1978, fino ai giorni nostri. L’evoluzione tattica e sovrastrutturale del calcio sono raccontati attraverso episodi, personaggi ed eventi inseriti nel discorso calcistico come tante piccole schede di una matrice generale. Non c’è nulla che si salvi, non c’è anima buona che possa emergere dal discorso calcistico contemporaneo e anzi: ogni deragliamento, ogni apparente deviazione, viene riportato ben presto all’ordine.

Piazzette, strade, supermercati: tutto coinvolge il calcio portandolo a divenire un non luogo per eccellenza, un non luogo deputato a scaricare i rivoli di un sistema che non potrà avere mai giustizia dentro di sé; il capitalismo porta con sé ovunque il proprio spirito egemone e di sopruso, pronto a rintuzzare qualsiasi tentativo di sabotaggio, e anzi, portando i sabotatori a diventarne testimonial ancora più potenti, proprio perché utilizzati nel simboleggiare la vittoria ottenuta. Trionfo che non lascia prigionieri. Il capitalismo non ha mai avuto un’epoca buona per chi stava dall’altra parte del potere; nel calcio è successa la stessa cosa. Pisapia racconta questa evoluzione e questa capacità di trattenere ogni potenziale scheggia e rilasciarla come fosse un novello manuale all’obbedienza, attraverso un cono d’ombra nel quale ripone personaggi ed eventi sballottati dalla storia, dalle coincidenze, dalle similitudini e dalla verosimiglianza.

Pur nell’ambito di questa lettura, il volume scorre perché evocativo di momenti rimasti impressi nella memoria popolare, piegando dunque al proprio istinto narrativo le capriole stesse del calcio, le sue apparenti storie «straordinarie», le sue continue vampate alla ricerca di una sistemazione migliore all’interno del congegno disumano del capitale. Colmo di riferimenti popolari, alti, specie quelli cinematografici, e dicerie, pettegolezzo e cinismo necessario, il libro di Luca Pisapia è stato pubblicato da Alegre all’interno della collana «Quinto tipo»: si tratta in effetti di un ibrido narrativo, perché l’autore utilizza tutti gli strumenti a propria disposizione, descrittivi, evocativi e stilistici. Ma nel novero delle proposte di Alegre, Luca Pisapia è l’autore che si spinge più in là, come se il calcio consentisse un’uscita – riuscita per altro – totale dalle linee narrative minime che costituiscono quella che chiamiamo «la trama».

Se il calcio è sempre stato colpevole, lo può essere anche la sua rappresentazione. Quindi, necessariamente, non si può raccontare il calcio complice e strumento del capitalismo, in modo tradizionale, anzi: ogni meccanismo va sbloccato, le derive vanno tutte perseguite e non c’è bisogno di alcun meccanismo narrativo classico – né di inutili innesti per dare una «parvenza di» – perché un ibrido abbia la sua forza quando è condito da grande conoscenza del tema, da un’idea forte e dalla capacità di spingere a trecento all’ora dalla prima pagina all’ultima. L’innocenza mancata, inesistente, presente solo nella sbiadita retorica – anche e soprattutto a sinistra, basti pensare all’idea senza parola di una calcio giusto contrapposto al calcio «moderno – e con essa l’arte commiseratoria, per essere raccontata non ha bisogno di uno specchio benevolo nel quale infilarci le occasioni mancate. Ha bisogno – invece – che quello specchio finisca distrutto in talmente tanti pezzi, da renderne impossibile una replica.