In questa competizione elettorale per la guida di grandi città e di numerosi comuni, è assente una riflessione sulla riforma del catasto, questione che tocca direttamente la finanza locale e la gestione del territorio. Il presidente Draghi vorrebbe inserirla nella legge delega sul fisco, ma c’è stata subito la levata di scudi della destra. La posta in gioco è alta.

Il catasto è lo strumento principe dell’Agenzia del territorio. Attua e custodisce l’inventario dei terreni e dei fabbricati. Registra i passaggi di proprietà, di destinazione d’uso ed eventuali modifiche di tipo strutturale. Determina gli estimi ossia stabilisce il valore di ciascun immobile. Dal valore codificato al catasto dipende il trattamento fiscale degli immobili. Quando, però – è il caso dell’Italia – la revisione dei dati avviene dopo un lungo periodo, si crea una divaricazione tra il valore catastale dei beni e il loro valore (reale) di mercato.

Da qui l’iniquità fiscale. Le tasse sulle compravendite, infatti, si calcolano sul valore catastale, in genere molto più basso del prezzo di mercato. Gli immobili di periferia, dove l’accatastamento è avvenuto in tempi più recenti, sono fiscalmente penalizzati rispetto a quelli del centro urbano, dove gli estimi sono stati definiti molto tempo fa. I proprietari di prima casa, poi, a prescindere dal valore catastale e dal conto in banca, sono esentati dall’Imu. Il sistema attuale, insomma è poco trasparente e iniquo. È a misura dei proprietari ricchi. E questo sta bene alla destra e ai liberisti di casa nostra.

Il catasto, come funziona ora, è un istituto che, per gli enormi vantaggi fiscali che offre, rende convenienti gli investimenti immobiliari. L’ascesa del capitale finanziario in Italia ha ricevuto un forte impulso proprio dall’intreccio tra finanza e mattone. Rivedere gli estimi è, dunque, un atto di equità. Intorno a noi, nelle nostre città, vediamo incredibili arricchimenti privati, un mercato del lusso (e delle case di lusso) che tira a meraviglia e, contemporaneamente, assistiamo all’impoverimento del pubblico, al degrado inesorabile del welfare locale, alla mancanza di manutenzione urbana. Le casse comunali piangono a causa di politiche fiscali, di scelte urbanistiche, di atti amministrativi che premiano rendita e speculazione, impoverendo la collettività. Mancano risorse per le case popolari, per il risanamento delle periferie, per la riqualificazione dei quartieri, per l’ammodernamento dei servizi.

Dall’aggiornamento dei dati catastali, che rimetta in riga le cose (κατά στίχον in greco antico significa “riga per riga”), sulla base del contesto territoriale e urbano, dell’ubicazione dell’immobile e dell’andamento di mercato, può derivare una sensibile crescita delle entrate tributarie. E’ un modo concreto di spostare il prelievo dal lavoro alla rendita. Chi ha lucrato sull’inefficienza del catasto, pagherebbe finalmente un po’ di più. Il rischio di riprodurre nuove iniquità si può evitare con una rimodulazione delle aliquote delle imposte sulle compravendite (di registro, catastali, ipotecarie) e sull’Imu, distinguendo tra prima e seconde case, tra piccola e grande proprietà immobiliare.

In un paese, come il nostro, con un alto indice di proprietari di prima abitazione, è giusto che lavoratori e pensionati con reddito medio-basso non paghino l’Imu. Sarebbe tuttavia una misura di equità riconsiderare la sua abolizione indiscriminata, che si configura come un regalo non dovuto ai più ricchi. Perfino l’Ue ci sollecita ad intervenire in questo senso. La destra si fa interprete degli interessi della rendita e intima il governo Draghi di lasciare al loro posto i pesanti e polverosi faldoni del catasto, che conservano dati codificati, a volte, un secolo fa. Per la destra va bene così. L’importante è salvaguardare vecchie e nuove ricchezze. Perché avanzi il processo di riforma del catasto, digitalizzazione e decentramento devono camminare insieme.

Finora il ministero e l’Agenzia del territorio hanno disatteso una normativa che, da oltre un decennio, prevede che i comuni siano coinvolti nella gestione del catasto. Dalla collaborazione tra catasto ed enti locali sarebbe possibile intercettare gli enormi incrementi di valore immobiliare, spesso determinati da interventi pubblici di riqualificazione urbana. La ricchezza è incamerata interamente dai privati per evidenti inefficienze di sistema. Secondo stime dell’Agenzia del territorio, dall’aggiornamento dei dati, a normativa vigente, si ricaverebbero 20 miliardi di maggiori entrate. Basterebbe inoltre fare sul serio sui 2 milioni di case un tempo considerate “fantasma”, ma ora non lo sono più, che in gran parte continuano a sfuggire al catasto e al fisco.

Trasferire la leva della tassazione immobiliare interamente in capo ai comuni potrebbe, insomma, diventare lo strumento per ridimensionare il peso della rendita e superare la crisi finanziaria che attanaglia le autonomie locali. Si darebbe, infine, grande spazio alla contrattazione sociale, indicando un’alternativa all’ondata di aumenti tariffari che si annunciano nel trasporto pubblico locale e nei servizi ambientali.