Visioni

Ingrid Bergman, scandalosa mamma diva

Ingrid Bergman, scandalosa mamma diva

Personaggi Al Cinema Ritrovato appena concluso un documentario di Stig Bjorkman sulla grande diva svedese, preceduto da un incontro con la figlia Isabella Rossini in piazza Maggiore

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 7 luglio 2015

Cinema Ritrovato si è chiuso con una sfilata di personaggi femminili, affascinanti e diversi, degni della passerella di Otto e mezzo. Prima di tutto Isabella Rossellini che ha incantato il pubblico strabordante di piazza Maggiore e in un incontro ravvicinato critici e cinefili, raccontando con spigliatezza ma anche con dovizia di notizie interessanti, di sua mamma Ingrid Bergman. Oltre alla diva muta massimamente Liberty, Lyda Borelli, in Rapsodia satanica, presentato in teatro con l’accompagnamento delle musiche che Mascagni aveva composto per il film all’epoca, infatti il festival proponeva la star Ingrid Bergman, nel bel documentario Jag Ar Ingrid di Stig Bjorkman che attraverso i suoi diari, gli home movies girati dal padre quando era bambina o da lei con i suoi figli, propone una figura inattesa, madre affettuosa e allegra ma capace di lasciare prima Pia e poi i figli avuti da Rossellini, per passione – per il suo lavoro di attrice, per un’istintiva libertà, che le permette di abbandonarsi ai sentimenti anche quando ciò fa scandalo, e scandalo davvero, come quando si legò a Rossellini pur essendo sposata. Quel suo essere nordica e timida ma capace di grande emotività emerge anche nei film degli esordi, in Svezia e in Germania. In particolare davvero insolito Juninatten, che inizia con un colpo di pistola che il suo amante le spara al cuore, accusandola di essere una borghesuccia, per spiegare poi attraverso il processo, le sue motivazioni, il suo carattere contradditorio.

Protagoniste femminili inattese anche in The Despoiler (1915) di Reginald Barker dedicato al genocidio armeno, con un finale tragico proagandistico: il generale tedesco Von Werfel, alleato coi curdi, sul confine, ricatta i maggiorenti armeni tenendo in ostaggio le loro famiglie, mentre sua figlia cerca di raggiungere il convento di suore in cui essi sono rifugiati, ma viene violentata dal capo degli orientali. Poiché i capifamiglia non cedono Von Werfel decide di sterminare gli ostaggi a cominciare da una suora velata, che è in realtà sua figlia. Insomma, trattandosi di un film americano, quando arrivati «i nostri» ci si aspetta l’agnizione risolutiva, giunge invece un finale drammatico che sottolinea con enfasi il tradimento tedesco della cristianità stessa. Il corpo delle donne infatti è sempre stato uno strumento di propaganda efficace, fin dalla prima guerra mondiale. Al contrario lieto fine non scontato per la giovane operaia italiana molestata dal padroncino cattivo, interpretata dalla brava Valentina Frascaroli, attrice del muto che non diveggia ma passa in modo convincente dai ruoli comici accanto al marito Andre Deed/Cretinetti, a ruoli tragici come questo de Il delitto della piccina (1920). Di fatto è un insieme di due film: il primo racconta le traversie della povera ragazza e della sua famiglia indigente, il secondo, dopo il processo e l’assoluzione della ragazza e del vecchio che l’ha assistita nell’uccidere il violentatore, propone una conciliazione sociale alla Metropolis, quando la piccina sposa il padrone buono e arringa gli operai in sciopero e li convince a tornare al lavoro. Le riprese dal vero a Torino di una grande manifestazione documentano forse –e involontariamente – le giornate di lotta del biennio rosso.

Il colore della lucciola (1955) della sezione «Armoniosa ricchezza; il cinema a colori in Giappone» racconta, attraverso le delicate sfumature di tessuti e foglie di diverse stagioni, il forte legame tra due sorelle, evidenziando nelle loro scelte l’attaccamento alle tradizioni (il ricamo dei kimono) e alla famiglia negli anni della modernizzazione del Giappone. Di ragazze moderne davvero tratta

The Man of the Moment (George Fitzmaurice, 1929) in cui la flapper di turno guida un aeroplano e si sposa per liberarsi dal tutore; un film a tratti spettacolare come nella festa da anni folli, in cui le pareti del lussuoso locale sono enormi piscine nelle quali guizzano fanciulle sorridenti – meglio del Gatsby di Luhrmann- ma anche genuinamente tenero nella scena in cui il marito bacia la mogliettina sugli occhi e sulle labbra, con impeto affettuoso ed erotico insieme.

Un’altra donna eccezionale è la Ella Maillart raccontata da Mariann Lewinsky, curatrice di diverse sezioni del festival, qui impegnata nel suo primo film da regista. Ella era una grande viaggiatrice e fotografa, che ha documentato con una 16mm il suo viaggio con Annemarie Schwarzenbach dalla Svizzera al Kafiristan nel 1939, alla ricerca di un oriente esotico quanto naturale e autentico. Un viaggio in soggettiva, tra diari, foto e filmati, con uno sguardo curioso, tra pastori e monumenti, sempre rivolto all’esterno; fino ai credits finali, quando per un breve istante vediamo il volto deciso di Ella.

Donna forte e moderna anche la coprotagonista di L’Ile enchantée (Henry Roussel, 1927), film ambientato in Corsica che contrappone progresso (l’industria rappresentata da questa donna che la guida con autorevolezza) al brigante nobiluomo, ancorato ai ruderi del vecchio castello e alla bellezza incontaminata delle sue montagne, ma affascinato dalla manager, e protetto dalla moglie del gendarme che lo perseguita, di cui ha salvato il figlio. L’etica e la psicologia dei personaggi di questi film muti a volte sono assai più complicate di quanto ci si aspetti.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento