Nessuno ha mai dubitato che Jean-Auguste-Dominique Ingres (1780-1867) fosse uno dei maggiori disegnatori e ritrattisti del diciannovesimo secolo. Esposizioni più o meno recenti, come la grande monografica allestita al Louvre nel 2006, lo hanno riconfermato. Attraversando le sale della mostra adesso, e fino al 23 giugno, a Palazzo Reale a Milano, Ingres e la vita artistica al tempo di Napoleone – a cura di Stéphane Guégan e Florence Viguier-Dutheil, catalogo Marsilio edizioni – , invece ci si dimentica di essere a una mostra sul pittore di Montauban.
Si procede nelle sale seguendo raggruppamenti di opere per temi (o soggetti?), come cercando una successione logica che, senza una vera e propria narrazione e in mancanza di una seriazione cronologica, perlopiù sfuggono. Per esempio, i nudi raccolti intorno al Patroclo (1780) di Jacques-Louis David dimostrano l’attenzione che il pittore francese e i suoi allievi hanno verso Caravaggio, Guercino, Ribera, la statuaria classica, seguendo e alimentando quella che è la propensione dei borsisti dell’Accademia di Francia a Roma. In città, dice David, «mi sembrò che mi avessero fatto l’operazione della cataratta».
Ma questo rapporto mutato con l’arte del passato lo si coglie solo più avanti, e con il confronto con la Venditrice di amorini di Joseph-Marie Vien, il maestro di David. Vien interpreta con il proprio gusto ancora rocaille l’ossessione per la pittura antica che gli scavi in Campania avevano alimentato nella sua generazione, ma il soggetto, ricavato da un affresco scoperto a Gragnano nel 1740, è ricomposto con figurine deliziose e affettate, gesti osceni – Cupido «indique d’une manière très significative le mesure des plaisirs qu’i promet», dirà Diderot – e mobili Luigi XVI. Che differenza con l’interpretazione tutt’altro che superficiale del Galata morente che David dà nel Patroclo, rivitalizzato da un’energia non solo muscolare.
Semplicità e primitivismo
Nelle sale successive le cose non vanno meglio. Nulla si dice dei barbus che, con il loro fanatismo per la linea, la semplicità e il primitivismo, hanno segnato la formazione di Ingres; ci sono solo dei cenni, e sparsi nel percorso, all’Ingres ritrattista, che pure ha realizzato, già nel primo, lungo soggiorno romano, tra i più bei ritratti dell’Ottocento. Il Sogno di Ossian, commissionato all’artista di Montauban nel 1811 e realizzato nei due anni successivi, casca nella sezione dedicata ai fremiti preromantici intrisi di tenebre e sensualità. Ma come arriva Ingres a quella spettrale fantasmagoria? Il dipinto, originariamente ovale, era stato concepito per il soffitto della camera da letto dell’imperatore nel Quirinale napoleonico. Un cantiere decorativo, pur nella sua storia interrotta, che rimane come il più interessante e vivace di quegli anni. Ingres vi partecipa con tre opere straordinarie che aprono una strada alternativa, quanto difficilmente praticabile, per il futuro della pittura di storia oltre David. Tutto questo, pare dimenticato.
Il fascino della mitologia, i richiami al mondo antico, il respiro epico, erano già stati gli ingredienti per la creazione dell’immagine del generale Bonaparte. Andrea Appiani ne era stato uno degli artefici più importanti, oltre che con i numerosi ritratti, con l’apparato decorativo di Palazzo Reale a Milano, a partire dai monocromi dei Fasti di Napoleone per il ballatoio della Sala delle Cariatidi, iniziati nel 1800, già in parte esposti nel 1803 durante la festa nazionale della Repubblica e inaugurati nella loro interezza nel 1807. Nel ciclo i fatti contemporanei sono celebrati come un’epopea, coniugando una narrazione continua, ispirata ai fregi antichi, alla ricostruzione del mito attraverso l’uso dell’allegoria. L’efficacia propagandistica dei Fasti è tale che lo stesso Napoleone ne ordina la traduzione in incisioni, presenti in mostra, mentre i dipinti sono stati distrutti dai bombardamenti del 1943.
Il colosso di Canova a Londra
Molti altri artisti si misurano o si erano misurati con l’immagine del generale divenuto imperatore. Canova trasfigura l’uomo in divinità nel Napoleone come Marte pacificatore, un colosso di marmo poco apprezzato dall’imperatore, finito nella casa londinese del duca di Wellington, vincitore di Waterloo, come trofeo di guerra. Robert Lefèvre e François Gérard seguono invece la tradizione del ritratto di apparato; Ingres sceglie una strada ancora diversa. Il suo Napoleone sul trono, ora all’Hôtel des Invalides, è la rappresentazione di un’icona dove sono isolati, uno per uno, come a volerne fare un inventario, i simboli del potere. In mostra il quadro è circondato da disegni che, in un paio di casi, sono studi di dettagli. La simmetria forzata, il sapore arcaico, più carolingio che augusteo, è molto criticato dai contemporanei. Dopo la visita all’atelier, nell’agosto 1806, il pittore Léonor Mérimée riconoscerà al quadro un carattere innovativo, ma sentenzierà: «les gens du monde le trouveront gothique et barbare». Ci si rende immediatamente conto che i riferimenti di Ingres sono radicalmente diversi da ciò che ci si poteva aspettare: «qualche medaglia gotica», gli acroliti allora oggetto di riscoperta, magari la valva del dittico del console Flavio Magno del 518, allora già nel Cabinet des Medailles di Parigi, riprodotta in uno dei disegni esposti – in didascalia solo un laconico: Imperatore d’Oriente seduto sul trono. Il quadro, probabilmente destinato a Genova o a Milano, fu invece relegato al Louvre per qualche anno, riemergendo solamente dopo il 1832, quando fu trasferito all’Hôtel des Invalides.
Ingres passa anche da Milano. Nel museo della sua città natale sono conservati una decina di schizzi eseguiti durante questo soggiorno. Sei di essi sono esposti a Palazzo Reale cadendo, con poche coordinate, in sezioni diverse. Eppure sono davvero interessanti: Ingres trascorre del tempo a Sant’Ambrogio e in San Maurizio al Monastero Maggiore; in Duomo si concentra sull’area del presbiterio dove non disegna uno jubè, come indicato in mostra, ma l’architrave con le sculture lignee di Gerolamo Sante da Corbetta, messe in opera nel 1591 e rimosse nel 1866.
En face des dominicains de Milan
Ultime note: bastava un po’ d’attenzione per cogliere che nel disegno di Una porta di Milano c’è un portale all’antica «en face des dominicains de Milan», con elementi scolpiti che hanno tutta l’aria di poter essere inseriti in quel variegato filone di scultura lombarda tra fine Quattro e primo Cinquecento che una volta si legava ai fratelli Mantegazza, caratterizzato da una forte carica espressiva, da disarticolazioni anatomiche e dall’orchestrazione di un lessico antiquariale. In quel disegno si riconoscono una Madonna con il Bambino che ha qualche cosa a che fare con altre, tra la Certosa di Pavia e il giovane Bramantino, e degli Angeli oranti dal profilo tagliente che si lanciano a grandi falcate facendo turbinare le vesti. Corrispondono agli esemplari del museo Bardini di Firenze, a quelli del Castello Sforzesco o ad altri? Con delle schede di catalogo serie questi nodi forse sarebbero già sciolti.
L’ultima sezione della mostra di Palazzo Reale è dedicata a Ingres «scaltro adoratore di Raffaello», come lo definirà Baudelaire. Dopo Waterloo, l’impero napoleonico crolla. Ingres rimane a Roma in attesa di nuove committenze. Disegna molto e, scriverà all’amico Jean-Pierre-François Gilibert, «mes adorations sont toujours Raphaël, son siècle, les anciens et avant tout, les grecs divins». I disegni raccolti nelle ultime sale, provenienti dal Museo di Montauban, sono altrettante intrusioni nell’elaborazione di opere in corso d’esecuzione e dimostrano la grande abilità di disegnatore di Ingres quanto la sottigliezza del suo erotismo, la commistione delle fonti, la varietà della sua cultura figurativa. Queste rielaborazioni poetiche dei modelli, impastate con una fantasia spesso inconsciamente bizzarra, ne fanno un precursore tanto del romanticismo «gotico» che del preraffaellismo. E la voluttà del corpo diventa sinuosità della linea in uno dei suoi capolavori su carta, il nudo della giovane moglie Madeleine, dipinto intorno al 1813, che chiude questa povera mostra milanese.