Ormai da molti mesi, in questo trentesimo anniversario, si fa memoria della Germania bifronte e speculare, della faglia che ne attraversava la geografia fino allo sgretolarsi dell’iconica barriera in cui la divisione si faceva corpo e figura. Quale occasione migliore per proporre al lettore italiano l’ultimo romanzo di Ingo Schulze, autore tedesco-orientale nato nei faboulous Sixties di là dalla cortina, cresciuto in Germania orientale, testimone di un realsocialismo ormai in frantumi e poi di una riunificazione avvenuta non senza qualche stridore di sottofondo, ormai voce distinguibilissima tra gli scrittori tedeschi contemporanei e nell’intellettualità europea.

Sullo scorcio dell’«anno giubilare» della storia tedesca, Feltrinelli pubblica, nella pregevole traduzione di Stefano Zangrando, Peter Holtz Autoritratto di un uomo felice (pp. 425, € 20,00) uscito nel 2017 in Germania e lì accolto da voci alterne di cauta lode, trattenuto biasimo e convinto riconoscimento.

Tra risolini e imbarazzi
Orfano di entrambi i genitori, fuggiti a ovest, Peter Holtz – dodici anni scarsi, dislessico e disgrafico – studia e abita nel collegio-orfanotrofio Käthe Kollwitz, tipica struttura del sistema scolastico unitario e socialista, vigilato da occhiuti prèsidi, cadenzato da fanfare di antifascismo e da una tempra comunque militaresca, anche se di segno opposto al passato. Le prime pagine del romanzo evocano bene quel blindatissimo sistema, proteso alla sistematica, orizzontale trasmissione di sapere teorico e pratico, senza privilegio e senza preclusione, e alla formazione, in uscita, di individui ben arrotondati dalla dottrina socialista.

Siamo nel mezzo degli anni Settanta a Gradow sull’Elba, da poco iniziata l’era Honecker, e Peter Holtz è uno dei giovani entusiasti, ligi e graniticamente partecipi alla costruzione del progetto, instradati con compostezza per le strade battute dalla Sed, in fiduciosa attesa di anni radiosi, dove da ogni angolo sarebbero risuonate giustizia, libertà e uguaglianza. Un soldatino di piombo che, procedendo a passo e cadenza, vive alla lettera il credo socialista e chiede a gran voce il diritto di tutti, la capillare gratuità dei beni, il possesso cancellato, piallata ogni disuguaglianza sociale.

Le sue istanze sono dapprima mediate dal candore, dai bronci, dalle risolutezze e dall’indeformabile coerenza tipici dell’infanzia, che spesso muovono in chi legge la corda della tenerezza. Nello spazio inaugurale della storia, Peter, senza un soldo in tasca, mangia stinco di maiale in una trattoria e, al momento di pagare, proclama con argomento cristallino l’inutilità del denaro e la necessità, anzi, che lo stato collettivista provveda a soddisfare i suoi bisogni primari. Tutt’intorno, le sue parole e i suoi comportamenti squadrati riscuotono, nel mondo degli adulti, reazioni miste dal risolino all’imbarazzo, dalla sprezzatura alla collera, dallo scherno alla commozione.

Bagliori della tradizione
Peter Holtz attraversa la giovinezza a passo di marcia, sulle note dei canti di lotta e di lavoro, la mente sempre rivolta all’icona laica di Pavel Korciaghin, il militante protagonista in Come fu temprato l’acciaio di Nikolay Ostrovskij, conclamato medaglione di realismo socialista.

I suoi giorni si modulano sulla laica liturgia del socialismo di Stato, culminante nelle maniche rivoltate dei subbotnik, i sabati comunisti di lavoro volontario, trascorsi a raccogliere patate a mani nude. Ma l’atmosfera non è solo quella, serissima e un poco plumbea, del blocco orientale e Peter non è solo l’intrepido fante della dottrina marxista. In lui convergono, nella chiave dell’ironia o dell’umoristico controcanto, figure e tipi letterari condensati in splendida sintesi, senza mai cadere nella didascalia o mostrare troppo la corda citazionale. Sono bagliori improvvisi che, nella caratterizzazione del personaggio, creano zone di fluorescenza e intermittenze, riportando il lettore accorto a rilievi e prominenze del canone letterario europeo.

Peter è, prima di tutto, una riscrittura moderna del picaro o della sua variante tedesca, lo Schelm, che nel secentesco Simplizissimus di Grimmelshausen, o nel suo pendant femminile Courasche, hanno occupato il proscenio letterario di molti caroselli barocchi, anche in diversi, futuri rilanci del tema.
La peregrinazione iniziale di Peter alla ricerca del vecchio direttore della scuola – allontanato forse per cause politiche e, come sempre, sprofondato nel silenzio – ha il tratto semiserio e gli strascichi curiosi del viaggio picaresco, e il giovane viandante migra subito verso le figure del briccone e del monello che, con sorridente leggerezza, gioca tiri barbini, afferma con semplici parole verità scomode, e si fa strada attraverso la vita con ingegno astuto e mai sofisticato, senza perdere di vista quella che fin da subito il lettore inquadra come causa persa. Ma Peter Holtz è anche l’eco chiara e distinta di altre, più recenti, riscritture picaresche e di certe moderne e studiate condensazioni epiche, in una narrativa che ritorna all’emblematica barocca e di cui le protasi e le enunciazioni della materia, a capo di ogni capitolo, sono una spia evidente.

L’adesione alla Cdu

Su questa scia, mentre alcune iniziali atmosfere in itinere, specie silvestri e campagnole, richiamano il viaggio dei poeti nell’Incontro di Telgte di Günter Grass, è soprattutto l’ombra di Oskar Matzerath del Tamburo di latta ad allungarsi su Peter, non nella fantasmagorica, smisurata realtà ma nei registri tonali dall’umoristico al grottesco e nella coscienza del personaggio, a mezza via tra candore inconsapevole e sardonica premeditazione. Anche la spontanea ingenuità del Candide voltairiano traluce dai gesti e dalle azioni di Peter, così come molte figure dall’anima bella e dal cuor contento ma, almeno apparentemente, impacciate e in dissonanza con il mondo, mai a ritmo e sempre fuori tempo, dallo shlemiel ebraico-orientale allo Hans im Glück dei fratelli Grimm fino a Forrest Gump e, forse, buttando l’occhio avanti in cerca di risonanze future, persino a Joker.

A Peter accadono le cose con epica semplicità, senza che se ne accorga o senza che ne veda il risvolto e la conseguenza. La sensazione è sempre quella di una consapevolezza che si attiva solo dentro l’evento, mai prima. E così – lungo le linee di questa fattualità epica mista a ironia, precisione, leggerezza, ad ammiccanti sguardi in tralice e a prospettive dal basso – Peter letteralmente inciampa sui crocevia della storia e della politica: è avvicinato dagli agenti della Stasi come collaboratore, aderisce convintamente, con autentico fervore da neofita, al cristianesimo underground della Germania orientale, fino al reclutamento nelle file della Cdu, nel suo volto orientale e anti-sistema.

Nella Berlino riunificata
Gli arride la fortuna e, grazie a una vecchia donazione, diviene multimilionario nella Berlino riunificata, le tasche piene di quel denaro che, da giovane avanguardia del socialismo e accalorato agitprop, aveva guardato con vero disprezzo. Ma anche una volta dentro l’economia di mercato, Peter non è un gran mogol della finanza e cerca sempre di destinare il suo capitale al bene altrui, convinto ormai che la strada verso il comunismo non passi per le austere cadenze e per la realtà livellata del socialismo ma che, al contrario, debba andare attraverso la fase capitalistica, per sfociare infine nella gloria dell’uguaglianza.

Sempre inattuale, sempre eccentrico, sempre liminale e trasgressivo, Peter Holtz va avanti e indietro, procede per scarti e deviazioni, disloca senza posa il punto di vista conservando, lungo tutto il libro, lo sguardo, insieme chiaro e straniante, di chi osserva il mondo senza cinismo e regalando al lettore l’accesso a una dimensione fluida, slegata dal le cause e dagli effetti, felicemente libera dal principio di realtà.