Stava succedendo di nuovo. Per sette minuti, tanti ne mancavano alla fine del match, il Twickenham Stadium, la “Fortezza”, ha rivissuto l’incubo di una sconfitta beffarda e definitiva. In quei sette minuti gli inglesi, che fino a quel momento pensavano di aver messo in sicurezza le sorti dell’incontro, hanno temuto l’irreparabile.

Era il 73’ e il risultato di Inghilterra-Galles era fissato sul 25-7. Il XV della Rosa aveva fin lì disputato una partita quasi perfetta. Gli inglesi non avevano sbagliato nulla. Il loro primo tempo (16-0) era stato da applausi, suggellato da una bella meta di Watson. In qualunque fase di gioco avevano avuto la meglio sui gallesi. Il ventunenne Mario Itoje, sangue nigeriano, un prodigio di giocatore, aveva deliziato tutti per la qualità dei suoi gesti tecnici e atletici. Il pack era dominante sempre e comunque, la cabina di regia tripartita (Youngs, Ford, Farrell) era stata chirurgica e sapiente, i trequarti compivano incursioni che provocavano profonde ferite nella retroguardia dei dragoni. Tutto sembrava avviato a una trionfale vittoria. Ma al 71’ l’arbitro sudafricano Craig Joubert tirava fuori un cartellino giallo e spediva fuori Dan Cole, reo di un ennesimo fallo in difesa. Il pilone inglese non sarebbe più rientrato in campo.

Due minuti dopo arrivava la meta gallese con George North e la trasformazione portava i rossi sul 25-14. Il margine di vantaggio era ancora rassicurante. Dopo altri tre minuti era Tobi Faletau a sfondare la trincea inglese, altra trasformazione e si andava sul 25-21. Mancavano quattro minuti al fischio finale e il Twickenham era soffocato dalla paura. Tacevano i cori e dagli spalti giungeva soltanto qualche muggito di sofferenza, mentre i tifosi gallesi cominciavano ad assaporare un’altra vendetta sui rivali di sempre.

Quattro minuti di terrore, con il Galles in pressione, arrembante e trasfigurato. A 15 secondi dal fischio finale, North partiva come un razzo sul lungolinea e sembrava che nessuno potesse più fermarlo, dietro di lui altre maglie rosse in sostegno. Era Manu Tuilagi, il centro samoano naturalizzato inglese, che riusciva a spingere North quel tanto che bastava per fargli calpestare la linea laterale. Rimessa inglese, tempo scaduto, lancio ben calibrato, palla conquistata e calciata fuori. Vittoria. Sospirone di sollievo che diventava boato di gioia.
L’Inghilterra guida la classifica del Sei Nazioni con punteggio pieno (8 punti).

Sabato prossim andrà a Parigi. Il Galles, fermo a 5 punti, non può più raggiungerla. La Francia, che domeniica  potrebbe battere la Scozia raggiungendo quota 6 punti, ha comunque una differenza nel quoziente di meno 58 e nessuno pensa che possa battere gli inglesi con un tale scarto. Dunque l’Inghilterra ha già il titolo in pugno e giocherà la prossima sfida con l’obiettivo del Grande Slam. Sarà comunque una gran bella partita.

meta Watson

Nel pomeriggio l’Italia è andata incontro a una severa punizione contro l’Irlanda. All’Aviva Stadium di Dublino è finita 58-15, con nove mete messe a segno dai padroni di casa contro le due segnature italiane arrivate nell’ultimo quarto di gara, quando il risultato era ormai fuori discussione.
Il tabellino è il seguente: Trimble (7’), McGrath (14’), Stander (30’), Heaslip (40’), Payne (42’), Heaslip (48’), Cronin (53’), Odiete (57’), Madigan (63’), Sarto (74’), McFadden (78’).

Non è il caso di infierire sulla prestazione degli azzurri. Diciamo però che si è trattato di un caso di manifesta inferiorità. L’Italia si è presentata a questo Sei Nazioni con molti assenti e con giocatori palesemente stanchi e ormai logori. Ha provato ad aggrapparsi ai suoi veterani – su tutti il capitano Sergio Parisse – ma questo non è bastato.

Jacques Brunel ha scelto, nella sua ultima stagione sulla panchina azzurra, di lanciare un manipolo di giovani speranze, e lo ha fatto con sprezzo del pericolo. E’ un torneo, il Sei Nazioni, che non concede sconti e che nulla perdona: se i tuoi giocatori sono all’altezza della sfida, puoi ben meritare; se invece non lo sono, sarai schiacciato senza pietà. I nostri giovani, molti dei quali esordienti assoluti, prelevati in qualche caso nel non esaltante campionato di Eccellenza – molti gradini sotto gli standard del rugby professionistico – non erano adatti alla bisogna, non ancora. I vari Lovotti, Padovani, Zanusso, Lucchese, Bellini, Odiete, Ciccarelli e Fabiani, una volta gettati nella mischia ce l’hanno messa tutta, con encomiabile impegno, ma i livelli tecnici con i quali sono stati chiamati a misurarsi erano troppo al di sopra delle loro possibilità.

Prima o poi doveva succedere. Per molti, troppi anni, la nazionale di rugby si è aggrappata a buoni, talvolta ottimi giocatori col passare del tempo sempre più logori. Icone con settanta, ottanta presenze in nazionale, lì da oltre un decennio, ormai riserve nei loro club europei ma sempre pronti a staccare il biglietto per un’ultima battaglia. E quando alla fine anche il loro tempo è giunto, si è scoperto che dietro c’era un vuoto. Non un vuoto assoluto – sarebbe un torto per chi ha cominciato ora la sua carriera in azzurro – ma uno scarto ben evidente che misura la distanza che oggi esiste tra il rugby delle grandi nazioni e quello italiano, qualcosa che si definisce nei gesti tecnici e nelle attitudini mentali.

Delle nove mete messe a segno ieri dall’Irlanda alcune sono state originate da marchiani errori dei nostri giocatori, altre da una evidente difficoltà a reggere il ritmo e la pressione avversaria. Poi ci sono i placcaggi sbagliati o mancati, una teoria interminabile. La prima meta personale di Jamie Heaslip, quella del 25-3, è stata un coast to coast dai 22 metri irlandesi con passaggi in serie e una difesa azzurra letteralmente smarrita e impotente. E poi c’è il pack, che un tempo era un punto di forza del rugby italiano e che oggi invece soccombe regolarmente, tanto in mischia chiusa quanto nelle ruck e nei punti di incontro.

Insomma, c’è molto lavoro da fare. Bisogna ricostruire la squadra, a partire dalle fondamenta. Far crescere i giovani, dandogli il modo di giocare il più possibile nei loro club. E migliorare le basi tecniche fin dai ranghi giovanili. Ma questi sono compiti che spettano alla federazione, non al prossimo allenatore dell’Italia, l’irlandese Conor O’Shea. Il quale, senza un cambio di marcia da parte dei vertici federali, rischierà di dover fare i conti con gli stessi problemi di sempre. E noi tutti finiremmo per rivedere un film già visto molte volte dal 2000 a oggi.