La carriera di Inge Morath (1923-2002) è inestricabilmente legata all’atmosfera che si respira a Venezia. Dalla città lagunare deriva infatti il trasporto con cui intraprese un’attività che, oltre a indimenticabili reportage fotografici, comprende una serie di ritratti di artisti famosi: da Giacometti a Picasso, da Marilyn Monroe ad Audrey Hepburn, da Heinrich Böll a Igor Stravinsky. Tutto cominciò durante un viaggio intrapreso nel 1951 con Lionel Birch, giornalista inglese che fu suo primo marito, da lei stessa raccontato in un testo che comparve nel catalogo di una mostra bolognese del 2003. In questo scritto la fotografa austriaca, all’epoca assunta come editor, traduttrice e ricercatrice dalla Magnum, impiego scaturito dall’estrema facilità nell’apprendere le lingue, narra di come fosse rimasta incantata dalla luce che aleggiava in quei giorni a Venezia. Contattò telefonicamente Robert Capa, all’epoca responsabile della Magnum, invitandolo a mandare un fotografo per un servizio da effettuarsi in loco, sentendosi obiettare che non era possibile. «Perché diavolo non la fai tu una fotografia, stupida?», si sentì rispondere. La Morath, che disponeva solo di una «Contax decrepita», entrò in un negozio e si fece caricare un rullino da un commesso che cercò di dissuaderla dallo scattare foto con quel tempo piovoso. La giovane si entusiasmò invece al progetto e decise, ex abrupto, di intraprendere quella carriera, diventando, a distanza di qualche anno, la prima fotoreporter della Magnum.

Dopo l’inevitabile gavetta, nel 1955 la rivista «L’œil» le commissionò un servizio fotografico per illustrare il testo di Mary McCarthy confluito nel volume Venice observed (1956), ora visibile, insieme ad altri lavori, in Inge Morath. Fotografare da Venezia in poi, mostra che il Museo di Palazzo Grimani di Venezia ospita fino al 4 giugno prossimo, curata da Kurt Kaindle e Brigitte Blüml, con la collaborazione di Valeria Finocchi.

La mostra annovera duecento scatti in bianco e nero, di cui quasi un’ottantina dedicati al tema veneziano, contenenti alcune tra le più affascinanti immagini sulla vita quotidiana del secondo dopoguerra nella città di Carpaccio e Tintoretto. Indicativa Vicino alle Fondamente Nove, Cannaregio che propone uno spaccato di vita popolare nella zona di Paludo S. Antonio, nel sestiere di Castello (non perciò a Cannaregio e nemmeno «vicino alle Fondamente Nove», come riportato nella didascalia del catalogo; cfr. al riguardo I «capitèli» di Venezia di Fiorenzo S. Cuman e Pietro Fabbian, Edizioni Helvetia, 1987, p. 62). Qui un gruppo di bambine si avvicenda sotto un’edicola votiva contornata di espressioni sacre di ascendenza popolare mentre sullo sfondo si stagliano i panni stesi ad asciugare in una calle percorsa da profili asimmetrici di passanti. Da notare in particolare la bambina isolata, intenta a osservare un oggetto minuscolo che tiene in mano, quasi nel tentativo di rimarcare, con quel gesto composto e misurato, il distacco dalle coetanee, perdute in un gioco cadenzato di indubbia esuberanza gestuale (e verbale). Questa immagine, contrassegnata da un’incredibile sottigliezza psicologica, sta alla pari con quella eseguita, qualche anno più tardi, da un ispirato Willy Ronis con il titolo Fondamente Nove, laddove il motivo dell’infanzia sembra ricavato dalle trine di un merletto o dall’increspatura variegata di un’onda, imperniandosi sulla silhouette di una bambina che attraversa una passerella in legno davanti a un panorama congestionato da piccole imbarcazioni, in contrasto con l’essenzialità architettonica del Casino degli Spiriti.

Alla stessa temperie umanistica che, oltre a Ronis, includeva figure di rilievo come Cartier-Bresson, Doisneau, Kertész e Lartigue, è riconducibile il percorso di Inge Morath, impegnata a catturare quello che Cartier-Bresson aveva definito il «momento decisivo» (ma non si dimentichi l’apporto del connazionale Ernst Haas), senza tuttavia indugiare sui tratti avvilenti di una realtà cresciuta sulle sue macerie, come avviene per le rifrazioni allucinate di Diane Arbus. Risulta emblematico ciò che scrisse la stessa Morath, fiera di rivendicare il proprio ruolo di dilettante: «La chiusura dell’otturatore è un momento di gioia, paragonabile alla felicità del bambino che in equilibrio in punta di piedi, improvvisamente e con un piccolo grido di gioia, tende una mano verso un oggetto desiderato».

«Autoritratto, Gerusalemme, 1958»

Un’altra fotografia emblematica è quella che riproduce un volo scomposto di piccioni in Piazza San Marco, capace di trasformare un soggetto di sconcertante banalità in un piccolo capolavoro di arte astratta (e si pensa alle variazioni sul tema di una Piazza San Marco sbilenca, ottenebrata, ridotta a congerie essenziale di segni materici, riprodotte da William Congdon). Ma altre sono le istantanee che la Morath riesce sapientemente a ritagliare sotto l’egida di una gamma di chiaroscuri che vira dal biancore abbacinante di un cielo estivo al trapezio nero di una tenda presente in Campo dei Mori, tutta giocata sulla contrapposizione fra staticità marmorea di Sior Antonio Rioba, con il nasone appuntito di metallo, e movimento di una ragazza che volge all’indietro il volto sorridente lungo la fondamenta assolata, appagata solo della sua spensieratezza d’antan. In Scarpe dimenticate si vedono due calzature femminili vicino a una fontana ritagliata su un orizzonte sbarrato da un muro lebbroso in cui si stagliano porte e finestre rigorosamente sigillate mentre due lenzuola, bianchissime, spiovono come ali rovesciate d’angelo dall’alto di chissà quale poggiolo o balcone.

Il catalogo Inge Morath. La vita, la fotografia, a cura di Marco Minuz (Silvana Editoriale, pp. 192, € 30,00), nonostante l’eccellente fattura, è lo stesso della mostra effettuata a Treviso presso Ca’ dei Carraresi nel 2019 e, come tale, riproduce solo una manciata di scatti veneziani. Si attende dunque che qualche editore illuminato raccolga il corpus completo di queste raffigurazioni. L’esposizione comprende inoltre una sezione di immagini realizzate in vari paesi (Austria, Francia, Regno Unito, Russia, Spagna, Stati Uniti, Cina, Iran, Romania), tra cui la celebre testa del lama che fuoriesce da un’auto nel traffico newyorkese. Spiccano le rappresentazioni degli Yankees vestiti in maniera inappuntabile, nascosti dietro le maschere stilizzate di Saul Steinberg, quasi a rivendicare la dicotomia tra aspetto elegante e inautenticità di un volto ridotto a mero reticolo di segni. Si chiude con una selezionata carrellata di ritratti, compreso quello del drammaturgo Arthur Miller, suo secondo marito, conosciuto sul set del film Gli spostati di John Huston.