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Informazione, un deserto chiamato democrazia

Informazione, un deserto chiamato democraziaMerchandising promozionale del New York Times – New York Times

Il muro dell'informazione Se la stampa piange, il giornalismo non ride. Tra rivoluzione tecnologica, testate che chiudono e bilanci in rosso, tutti gli editori del mondo hanno capito che i lettori sono l’unica cosa che conta. Ma potrebbe essere troppo tardi. E nessuno può più sbagliare

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 6 marzo 2019

Mentre il governo legastellato sta per lanciare gli «stati generali dell’editoria» i frutti nefasti del taglio al fondo per il pluralismo cominciano a maturare.

Di fatto non c’è editore italiano, piccolo o grande, che non abbia dichiarato lo stato di crisi.

E anche i pochi che apparentemente resistono, vedono calare vendite e ricavi e si arrangiano nel «diversificare il prodotto» con eventi, big data, collaterali, corsi professionali, viaggi e quant’altro.

Se la stampa è in crisi, il giornalismo non ride. Hanno fatto un deserto e l’hanno chiamato democrazia.

Negli Stati uniti centrali negli ultimi anni sono scomparse 1.800 testate locali, con il risultato che ci sono comunità (e poteri) privi di informazione e dunque di contropotere. Uno scossone che taglia i legami civici e devasta le radici della convivenza costruite negli ultimi due secoli.

Pensare che questa profondissima rivoluzione industriale riguardi solo i «dinosauri» delle edicole è da sciocchi.

Appena la tecnologia consentirà di riprodurre adeguatamente suoni e filmati, anche i broadcaster via etere tipo Rai, Mediaset ne subiranno gli effetti. L’idea di «palinsesto» deciso dall’alto (come quella di «sfoglio» delle pagine di un giornale, del resto) sarà messa a dura prova.

I giornali non sono solo «informazione». Sono «informazione curata», cioè scelta e gerarchizzata dalla prima all’ultima pagina e riga da un gruppo di professionisti. Un processo top-down che assorbe buona parte delle redazioni per molte ore al giorno.

Veniamo a conoscenza di centinaia di notizie che poi non pubblichiamo, e discutiamo per decidere dove e in che ordine vanno proposte al lettore. Su cosa «aprire» il giornale lo decidiamo noi, non i nostri abbonati.

Scegliamo una copertina perché per noi è «giusta», è la «notizia del giorno».

Ma il futuro non la vede allo stesso modo. Per chi frequenta Youtube o Netflix, la gerarchia la decidono gli algoritmi (segreti e proprietari) e il telecomando. Guardo quel film all’ora che voglio, non perché qualcuno pensa che sia «giusto».

La «cura» è nascosta dalla cessione continua dei propri dati, dei propri gusti, delle proprie scelte culturali, politiche, economiche.

Nel Web nessuno è mai da solo. Ci sono pezzetti di software che ti osservano. Continuamente.

E forse dovremmo (ri)scoprire il piacere di leggere un giornale in santa pace, quando nessuno ci guarda e «conta» le righe che abbiamo letto per quanto tempo.

Girate pagina.

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