A quarantadue anni, preda di un disincanto esiziale, sfinita dalla facilità di poter avere incontri sessuali frequenti ma senza alcun legame, conscia di essere fuori da ciò che credeva di meritare, la protagonista del memoir di Silvia Ranfagni (Corpo a corpo, edizioni e/o, pp. 156, euro 16) sceglie di avere un figlio. Una decisione che matura a tavolino, o forse sul divano dei suoi disastri, o magari per il semplice fatto di ricominciare ad avere notizie di se stessa, per sentirsi in uno stato di intimità che lei per prima possa toccare. Dentro. Perché nel fuori in cui è stata espulsa c’è solo merce scadente, sentimenti compresi. Si rivolge così a una banca del seme che tramite la fecondazione assistita le consente di accedere al proposito di diventare madre.
Esordio notevole per un oggetto letterario ibrido che di pagina in pagina tende gli arti, come fosse un neonato, per esercitarsi a respirare e a vivere in autonomia.
Flusso di coscienza, indagine sui recessi umani, diario, per collocazione anagrafica è un libro che potrebbe essere maldestramente scambiato per un ritratto di una generazione di donne che stanno quasi alla fine della propria parabola riproduttiva. Non lo è invece, la biologia risulta elemento tra i meno importanti, piuttosto è prezioso l’incubo che Ranfagni descrive con dovizia di particolari riguardo ciò che, con sfrontata leggerezza, viene chiamato Corpo.

Un dato che, con la prima lettera maiuscola a nobilitarne (e a distanziarne) i natali, ci viene presentato fin dalle prime righe senza nome proprio. Vorace e ambiguo intruso nella esistenza di chi lo ha generato, il Corpo – il figlio – non è un levigato e paffuto cherubino ma un bimbo che nasce senza averlo chiesto e che, privo di scontati pietismi, rappresenta lo scandalo informe e scomodo della bisognosità. E a questo aggrappamento di cui si è le uniche destinatarie non si sa che rispondere. Nessuno ha colpe, è una storia del disamore che, sia detto a scanso di equivoci, è più pensato che agito. Rammenta però, con precisione millimetrica, che i famosi «bivi» sono più simili ai nugoli. E che a una scoppiettante prestazionalità e muscolare prontezza si sostituiscono spesso opache regioni ben più prosaiche, di un’indolenza banale e pervicace. E che nella solitudine non sempre ci si rende conto di quale pericolosa strada si stia intraprendendo.

La protagonista di Corpo a corpo ha un’attenzione ossessiva che la penna di Silvia Ranfagni maneggia bene, con uno stile asciutto, ironico e una dinamica della narrazione che non è mai litania lamentevole. È invece proprio «l’incontro» come momento di vita a fare problema, diremmo la relazione se però non vi fosse qualcosa anche di epidermico nel perplesso disappunto della protagonista verso l’altro. La conferma arriva quando entra in scena una tata di origine straniera, più radicata negli affetti e che chiama il bambino per nome, Arturo; la protagonista pure, Beatrice; lei stessa si presenta, Elsa. E dice di sé, di quello che non è proporzionale alla capacità riproduttiva ma che cresce con una cova simbolica spesso condivisa fra donne, quando raccontandosi rammendano se stesse.
Ritratto contemporaneo della solitudine, il tema indagato dall’autrice si rintraccia in apertura: «Tu vuoi l’Amore Assoluto. Purtroppo l’Assoluto è privo di ogni restrizione. L’Assoluto non si può assaggiare, tentare, provare; l’Assoluto è per definizione un tutto o nulla e, tu, col Nulla, non vuoi avere niente a che fare». L’esperienza delicata e complessa è proprio nello svincolarsi salutare di «amore» e «assoluto», sbagliando nella sostituzione avventata del primo con il secondo ed eleggendo solo quest’ultimo a luogo di libertà, sentendosi – in una parola – imprescindibili. Quando invece basterebbe cominciare a parlare di cura del desiderio, di dipendenza. Soluzioni non ce ne sono tante ma un poco di felicità circola lo stesso, generata dal piacere. Chissà. Anche di essere un corpo. In minuscolo.