Sono gli infermieri la categoria professionale più colpita dal Covid-19. Secondo i dati dell’Istituto superiore di sanità, sono oltre diecimila gli infermieri contagiati, cioè circa la metà degli operatori sanitari che hanno contratto il coronavirus. 35 di loro sono morti. Negli ultimi due mesi, sulla stampa la parola più spesso associata agli infermieri è stata «eroi». Ma è ormai evidente che quella parola oggi suona più che altro beffarda.

Il 2020, che sarà ricordato come l’anno della pandemia, nei piani dell’Organizzazione mondiale della sanità doveva essere dedicato a infermieri e ostetrici. Che poi si dovrebbe usare soprattutto il femminile, perché sono professioni svolte per oltre i tre quarti da donne. Sarà un caso, ma come per gli insegnanti (altri «eroi civili» a intermittenza) la percentuale femminile si accompagna a una sottovalutazione del ruolo.

Innanzitutto, gli infermieri sono pochi ovunque. C’è un fabbisogno di 6 milioni di professionisti, secondo l’ultimo rapporto dell’Oms dedicato al tema, che dovrebbero aggiungersi ai 28 milioni di infermieri che oggi assistono i malati in tutto il mondo. Il problema riguarda soprattutto i paesi più poveri, ma con gradi diversi anche il nord del mondo.

L’Italia, ad esempio, è uno dei paesi Ocse con il numero più basso di infermieri rispetto alla popolazione: circa 6 ogni mille abitanti. In Norvegia sono il triplo, in Germania il doppio, in Francia sono quasi 11, la media europea è 8,8. Il confronto stride soprattutto riguardo ai medici, che invece in Italia sono 4 ogni mille abitanti, al di sopra della media Ocse di 3,5. Perciò, in Italia ci sono 3 infermieri ogni 2 medici, mentre in media negli altri paesi Ocse ce ne sono 5.

La carenza di infermieri rispetto al fabbisogno, secondo la legge della domanda e dell’offerta, dovrebbe corrispondere a salari più alti. Macché: in Italia un infermiere guadagna in media poco meno di 1500 euro netti. In Europa, quasi ovunque lo stipendio si aggira sui 2000 euro al mese. Il problema dello scarso numero di infermieri non è solo sindacale, ma riguarda tutta la società.

Moltissimi studi dimostrano che la mortalità negli ospedali è strettamente correlata al livello di assistenza fornito dal personale infermieristico. Dunque, è una questione che riguarda tutti.

Le celebrazioni come l’anno dell’infermiere proclamato dall’Oms o la giornata dell’infermiere che cadeva proprio ieri sollevano forse il morale, ma non le condizioni di lavoro. Almeno la pandemia è servita a riscoprire un ruolo trascurato? «Non credo ci fosse bisogno di scoprirlo», dice Barbara Mangiacavalli, presidente della Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche (Fnopi), in un’intervista al sito Interris.it.

«Gli assistiti che hanno a che fare con gli infermieri lo sanno e le testimonianze maggiori in questo senso vengono, ad esempio, da quelle categorie più fragili che altrimenti, anche in assenza di Covid, rimarrebbero sole ad affrontare i loro bisogni di salute sul territorio».

Di fronte a governo, regioni e strutture sanitarie gli infermieri portano rivendicazioni diverse. Riguardano un’indennità che finalmente riconosca il rischio professionale, che in tempi di Covid-19 è davvero impossibile non vedere. Ma chiedono anche un accesso allargato alla professione.

Secondo i calcoli della Fnopi, in Italia mancano circa 53 mila infermieri, ma le università non ne tengono conto quando programmano gli accessi ai percorsi di formazione. Il numero è presto spiegato: «Circa 12 mila in meno sono legati al blocco del turn over per oltre dieci anni, del ricambio cioè degli organici dopo che i professionisti raggiungendo il limite di età vanno in pensione», spiega ancora Mangiacavalli.

«Poi ne mancano altri per essere in linea con quanto l’Ue ha sancito – e l’Italia ha ratificato – per quanto riguarda i turni di lavoro e i relativi riposi: per poter applicare la direttiva ci vogliono almeno altri 21 mila infermieri in ospedale». Infine c’è la medicina territoriale, il punto debole anche nel modello lombardo: «Calcolando il numero di infermieri necessario ad assistere i pazienti fragili (cronici, non autosufficienti, anziani) mancano almeno 32 mila professionisti».