Il 45% degli Scozzesi ha votato per l’indipendenza dalla Gran Bretagna. In Catalogna la percentuale degli indipendentisti è raddoppiata: l’80% dei votanti al referendum indetto dal governo locale (il 40% degli elettori visto il carattere non legale della consultazione) ha optato per la separazione dalla Spagna.

Le spinte indipendentiste in Scozia e in Catalogna hanno una tradizione secolare e origini sociali, culturali e politiche complesse. Inquadrarle in uno schema di lettura piegato alle esigenze immediate dell’attualità sarebbe fuorviante. Nondimeno la loro deflagrazione in un contesto di convivenza pacifica, di parità politica e di tolleranza culturale, è un segnale inquietante che dà l’esatta misura, per chi vuole tenerne conto, di certi movimenti nella psicologia collettiva che stanno creando un terreno fertile per l’autoritarismo. Sta prendendo forma un indipendentismo senza reali rivendicazioni e senza un reale contenzioso che apparentemente trae origine da interessi materiali egoistici del momento. A veder meglio, questi interessi sono, il più delle volte, interpretazioni immaginifiche del futuro.

Secondo una recente indagine di Demos, il 30% degli italiani vorrebbe l’indipendenza della loro regione dall’Italia. Friulani, veneti, sardi e siciliani sembrano i più entusiasti ma la cosa assume toni comici quando si scopre che l’indipendenza l’anela anche il 35% degli abitanti del Lazio, regione della capitale d’Italia. Un reale vantaggio dei laziali a staccarsi dall’Italia non lo concepirebbe neppure la più fervida immaginazione ma le fantasie che sottendono queste aspirazioni irrazionali sono di natura consolatoria e non sogni che afferrano possibilità vere.

Che gli indipendentisti dell’ultima ora pensino a una secessione vera e propria è improbabile e si potrebbe, meno drammaticamente, pensare che si tratti solo di disaffezione da uno Stato percepito come lontano e ostile. In realtà, è in movimento un separatismo privo di progettualità e quindi senza assunzione di responsabilità e confronto con la realtà, il che lo rende più contagioso. Le sue radici stanno nello sgomento prodotto dalla globalizzazione che se ha ampliato in modo esponenziale le relazioni di scambio le ha rese anche molto più precarie e incerte. Così, se da una parte l’apertura allo straniero appare ineludibile, dall’altra è vissuta sempre di più come rischiosa. La tendenza all’isolamento spinge a mettere in discussione assetti unitari considerati precedentemente intoccabili e a considerare come estranei i propri vicini di casa. Inseguire la coltivazione del proprio orto è cercare di sottrarsi dalla percezione di una realtà dura e inospitale mettendo la testa sotto la sabbia come lo struzzo. Non è in gioco la xenofobia, l’investimento narcisistico, difensivo della propria differenza, ma una tendenza di ritiro autistico dalla relazione con l’altro.
La rivendicazione dell’indipendenza a prescindere dalla definizione della propria posizione all’interno di un sistema di relazioni, segnala una preoccupante difficoltà ad accedere a legami di reciproca dipendenza (la condizione esistenziale dell’animale sociale che è l’uomo).

Si insegue la liberazione dall’altro, quando, in realtà, è il suo uso fruttuoso che è precluso, e si soddisfa il bisogno di dipendenza con l’attaccamento a oggetti neutrali sul piano dell’impegno emotivo che favoriscono, attraverso il ristagno del flusso della vita, l’illusione dell’autarchia. Nulla è più neutrale delle “droghe” di vario tipo, a partire dalle parole d’ordine passivizzanti, che preparano l’avvenire di un potere repressivo.