Un primo risultato è già noto. All’indomani della diffusione da parte del popolare Sunday Times di un sondaggio che dà per la prima volta in testa i «sì» all’indipendenza della Scozia – 51% contro 49% –, la Borsa di Londra ha perso oltre un punto percentuale, mentre la sterlina è calata ai minimi da oltre un anno sul dollaro, con una flessione dell’1,2%. Il voto degli scozzesi per decidere del loro futuro è fissato per il 18 di questo mese, ma l’economia inglese sembra segnalare fin d’ora la propria possibile sconfitta. Senza le sue regioni settentrionali, devono aver pensato nella City, il Regno Unito potrebbe perdere davvero molto, in termini squisitamente economici e forse non soltanto in quelli.

La Borsa interpreta infatti a suo modo, con uno scossone che ha fatto gridare all’allarme i vertici economici ma anche quelli politici londinesi, l’esito di un sondaggio che secondo gli stessi specialisti dell’istituto YouGov che lo ha realizzato, delinea un continuo «trend ascendente» a favore dei sostenitori dell’indipendenza scozzese che hanno guadagnato ben 4 punti in una sola settimana. Nei commenti dei maggiori opinionisti si fa largo l’ipotesi di un successo su cui fino a qualche mese fa nessuno avrebbe scommesso un soldo.

La tensione, negli ambienti del governo conservatore, monta in modo percepibile e lo si capisce bene ascoltando le parole pronunciate dal cancelliere dello Scacchiere George Osborne, il ministro delle Finanze, nel corso di un’intervista rilasciata alla Bbc. Osborne alterna minacce e lusinghe, spaventato, al pari dello stesso premier Cameron, dal fatto che la situazione possa sfuggire di mano a Londra. «Se gli scozzesi opteranno per l’indipendenza, non potranno più utilizzare la sterlina», ammonisce prima di annunciare come «nei prossimi giorni illustreremo un piano di azione per dare nuovi poteri alla Scozia in materia di fisco, spesa pubblica e welfare».

A lungo, negli scorsi mesi, i due campi si sono affrontati con una certa moderazione. Gli adepti della separazione del nord facendosi riprendere seduti davanti a grandi cartelli, neanche a dirlo dipinti di bianco e di blu – i colori della bandiera nazionale che riproduce la croce di Sant’Andrea – su cui era scritto «Welcome to the indipendent Scotland», intenti ad offrire caffè e biscotti fatti in casa lungo le possibili, future linee di demarcazione tra i due territori, mentre i fautori del mantenimento dell’unione si trinceravano dietro lo slogan a prima vista rassicurante «Better togheter».

Poi, quel «meglio insieme» ha acquisito un profilo via via più minaccioso: chi pagherà le pensioni degli scozzesi dopo l’indipendenza, chi le loro spese sanitarie, chi l’istruzione, l’assistenza agli anziani, gli stipendi dei dipendenti pubblici. Nel vocabolario degli esponenti dei maggiori partiti britannici – conservatori, laburisti e lib-dem riuniti nel fronte del «no» – separazione ha iniziato a fare rima con collasso economico, fine dello stato sociale, peggioramento della condizioni di vita, impossibilità di garantire l’ordine pubblico. Senonché, ora che per la prima volta le indagini demoscopiche attribuiscono la vittoria agli indipendentisti, le parti sembrano essersi rovesciate: a far paura potrebbe essere la politica seguita a Londra.

Secondo Charlie Jeffery, politologo dell’Università di Edimburgo, la campagna contro gli indipendentisti, «si è focalizzata sui pericoli che potrebbero essere insiti nella separazione, piuttosto che sul valore e i vantaggi che potrebbe avere il restare insieme». Così, è stato per certi versi facile per i nazionalisti scozzesi rovesciare il senso di quei discorsi, chiedendo agli elettori – il 18 settembre potranno votare tutti coloro che risiedono in Scozia, circa 4 milioni di persone – se avessero davvero voglia «di restare in un paese governato dai conservatori che vogliono privatizzare la Nhs, il sistema dell’assistenza pubblica e che hanno appena varato una nuova tassa anche sulle abitazioni più modeste».

Per Alex Salmond, primo ministro scozzese e storico leader dello Scottish national party, che già presentando lo scorso anno il progetto di referendum aveva delineato i contorni della futura Scozia indipendente come una sorta di socialdemocrazia alla svedese, grazie ai ricavati della produzione di idrocarburi – il 90% di quanto viene prodotto oggi nel Regno Unito arriva dalle acquee territoriali del nord –, questo voto si è perciò trasformato in una denuncia della politica di austerity perseguita da Westminster.

Un messaggio che, non a caso, sembrano aver recepito soprattutto gli elettori laburisti, scozzesi – il 35% di loro è schierato ora per il «sì», erano solo il 18% all’inizio di agosto. E se tra i Tory l’eventuale successo degli indipendentisti costerebbe quasi automaticamente il posto a Cameron –il sindaco di Londra Boris Johnson si prepara da tempo a sostituirlo – per il Labour perdere la Scozia, dove elegge ben 40 deputati, equivarrebbe ad una autentica catastrofe. Per questo, Ed Miliband ha spedito ieri a Edimburgo Gordon Brown, che è nato in Scozia: convinse in pochi da premier, chissà se ora gli andrà meglio.