Il miracolo economico indiano, come cartellone pubblicitario della crescita western friendly del gigante asiatico, si sta sbiadendo sotto i colpi della crisi globale. I ritmi forsennati di incremento a due cifre del Pil hanno lasciato lo spazio, negli ultimi anni, a stime ben più modeste; alla speranza di superare la soglia del 5 per cento e continuare ad alimentare il «sogno indiano» nelle generazioni future.

Il rallentamento, per un paese popolato da quasi 1,3 miliardi di persone e in crescita demografica costante, è il principale grattacapo delle istituzioni indiane, ben consce che in assenza di una svolta «inclusiva» nelle politiche economiche, la pentola a pressione del subcontinente rischia di sfiatare con violenza, sfogarsi in quei movimenti separatisti, settari e terroristici che offrono all’India degli ultimi un’apparente via d’uscita dallo stato di indigenza perpetuo.

La soluzione avanzata dai tecnici e accademici vicini al governo si muove lungo le imposizioni del mercato, predicando quella «flessibilità del mercato del lavoro» che vuole far coincidere la diminuzione delle tutele e dei diritti con l’aumento al contagio virtuoso della ricchezza.

Ma l’India, dietro la patina hi-tech, è sostenuta da un esercito di lavoratori invisibili di dimensioni impressionanti: sono le truppe del «lavoro informale», un fenomeno che Elisabetta Basile, professoressa di economia applicata presso La Sapienza di Roma, ha sviscerato nel suo ultimo saggio accademico Capitalist Development in India’s Informal Economy (Routledge, giugno 2013).

Professoressa Basile, cosa si intende per «lavoro informale»?

Il termine «lavoro informale» indica il rapporto di impiego in cui i lavoratori sono occupati in una attività produttiva, senza che vengano assicurati loro diritti e tutele e diritti. In India il fenomeno ha dimensioni gigantesche, si calcola che i lavoratori informali siano il 90 per cento della popolazione attiva, grosso modo 400 milioni di persone. Senza ferie, senza riposo settimanale, pagati spesso a cottimo e senza sicurezza sul – e del – lavoro, ogni anno producono il 50 per cento del Pil indiano.

Qualcosa di simile a ciò che in Italia chiamiamo “lavoro nero”, anche se nel contesto indiano il termine indica il lavoro “non registrato” piuttosto che il lavoro nascosto. Non c’è nulla di clandestino nel lavoro informale indiano che è sistematicamente stimato e aggiunto alla quota di lavoro formale. Senza questo tipo di lavoro, l’India non potrebbe mai vantare i tassi di crescita ai quali ci ha abituati.

Chi sono i lavoratori informali?

Facciamo prima a dire chi sono quelli formali: lavoratori della scuola, amministrazioni locali, esercito, alcuni pezzi di sanità non esternalizzati, professori universitari e qualche grande impresa. Questi lavoratori costituiscono la cosiddetta «cittadella» dell’occupazione in India: un manipolo di lavoratori specializzati, che gode di contratti e tutele, asserragliato nella propria isola di benessere. Man mano che si scende lungo la scala produttiva, il resto dei lavoratori è informale e guadagna un salario che permette un’esistenza che spesso supera di poco la soglia di povertà, che secondo i – discutibili – standard internazionali è fissata intorno a 1,25 dollari spesi al giorno. E stiamo parlando delle realtà urbane, che in India comprendono poco più del 20 per cento della popolazione totale. Il resto dei lavoratori, che vivono nelle campagne, è informale quasi al 100 per cento.

Si tratta di un fenomeno nuovo, una conseguenza della globalizzazione?

Assolutamente no. Per motivi diversi, l’India non ha mai raggiunto lo stadio della «formalizzazione» dell’attività produttiva che i paesi di prima industrializzazione hanno raggiunto nella fase della maturità capitalistica. Uno dei fattori importanti è il basso livello di alfabetizzazione delle forze di lavoro. Qui, lo stesso Jawaharlal Nehru, primo ministro dell’India indipendente nel 1947, ha grandissime responsabilità. Il problema dei lavoratori all’epoca era il basso livello alfabetizzazione e la scelta di Nehru fu realizzare un sistema universitario d’élite sul modello anglosassone, tralasciando l’istruzione primaria.

Ancora fino a pochi anni fa, solo una donna su tre, nelle campagne, sapeva scrivere il proprio nome. Solo nel passato recente il governo ha iniziato a promuovere l’alfabetizzazione delle campagne, uno degli strumenti che assieme alla lotta alla povertà e ai sussidi dovrebbe guidare l’India verso lo «sviluppo inclusivo». Ma, a leggere i documenti ufficiali, l’idea di «sviluppo inclusivo» portata avanti dal governo indiano non contiene tra le priorità la garanzia dei diritti e delle tutele per i lavoratori, mentre propone l’ulteriore liberalizzazione dell’economia.

Come si spiega una così alta percentuale di lavoro informale nel paese?

Con ordini di grandezza diversi, ma la ragione di condurre un’attività produttiva non registrata in India e in Europa è identica: non pagare le tasse ed evitare i controlli sui costi sociali della produzione (sfruttamento dei lavoratori e dell’ambiente). Ma esiste anche un’altra ragione più pratica e profonda, evidente in particolare nelle campagne: il lavoro informale produce le merci che vengono consumate, usate e mangiate dai lavoratori informali, che non dispongono di mezzi economici tali da poter acquistare nel mercato formale. In India oggi esistono due economie parallele: quella formale, abitata dalle imprese ‘formali’ e popolata da una parte consistente della classe medio-alta – stimata intorno a 300 milioni di persone – che gode di salari più alti e si rifornisce prevalentemente di beni e servizi prodotti in attività registrate (elettrodomestici nuovi, centri commerciali, hotel e ristoranti di lusso…); e quella informale, la realtà di tutti giorni nelle campagne e in gran parte dei contesti urbani, fatta di negozietti, mercati all’aperto e merci di seconda (terza e quarta…) mano.

C’è però un continuum fra le due economie, poiché anche l’economia formale impiega lavoratori informali nella manifattura e nei servizi. E questo si osserva sia nei «laboratori del sudore» (sweatshops) che producono merci di qualità variabile con forte sfruttamento del lavoro, sia nelle case, dove i lavoratori domestici sono sistematicamente senza diritti e senza tutela.

Quindi la probabilità di acquistare anche qui in Europa merci made in India prodotte da lavoratori informali, davanti a questi numeri, è molto alta.

I miei studenti spesso mi chiedono: «Cosa può fare il consumatore occidentale per opporsi allo sfruttamento dei lavoratori informali nei paesi poveri?»

La risposta data dall’Occidente è stata introdurre degli standard di produzione e organizzazione in modo tale da obbligare le imprese a mettersi in regola e rispettare le indicazioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro sui diritti dei lavoratori. In India che succede? Nel settore del tessile, il più discusso in India a fronte di una tradizione secolare, gli imprenditori che devono adeguarsi fanno due cose: o falsificano tutti i documenti o, se riescono, decentralizzano la produzione in Bangladesh o nel Sud-est asiatico, servendosi di un intermediario.
La figura dell’intermediario è centrale nella produzione made in India e nel lavoro informale. Prendiamo, ad esempio, una nota multinazionale che vende in tutto il mondo tappeti fabbricati in India «senza il lavoro dei bambini». È un’affermazione che non può fare, perché non lo possono sapere.

La multinazionale emette l’ordine di acquisto a un intermediario, indicando quanti tappeti vuole, colore e misure; l’intermediario, a sua volta, trasmette l’ordine a un altro intermediario, e poi un altro e un altro ancora, fino ad arrivare effettivamente a chi produce i tappeti, una famiglia, mettiamo, del Rajasthan che lavora da casa impiegando donne, nonni, bambini in orari di lavoro sfiancanti, ricevendo una retribuzione a cottimo. Chi materialmente produce la merce, quella famiglia, non solo è sconosciuta alla multinazionale, ma anche ai diversi livelli di intermediari che, sfruttando la manodopera, generano il profitto. L’organizzazione del lavoro, in India, funziona così, e lo stesso discorso vale per i call-center, i servizi e la manifattura in generale, in particolare quando le tecniche impiegate sono semplici. Salvo pochissime eccezioni, l’etichetta made in India indica che quel prodotto arriva da un’attività lavorativa informale.

Siamo di fronte a una classe media cresciuta grazie all’economia informale.

L’economia informale, secondo quest’organizzazione del lavoro, genera dei profitti altissimi. E gli effetti di questo benessere non inclusivo sono evidenti nella forte crescita della disuguaglianza. Vent’anni fa i grandi alberghi non erano frequentati dagli indiani. Oggi gli hotel di lusso come quelli delle catene Oberoi o Taj sono pieni di clienti locali, che hanno sostituito gli europei, i quali non possono hanno ormai una ridotta capacità di spesa. Stesso discorso per i ristoranti di lusso. L’economia informale, in definitiva, è il vero trucco del boom economico indiano che poggia su alti livelli di sfruttamento dei lavoratori. Senza la regolarizzazione del mondo del lavoro, senza la tutela dei diritti dei lavoratori, per l’India lo sviluppo inclusivo rimarrà un’illusione.