Mercoledì scorso la Rajya Sabha, la Camera alta del parlamento indiano, ha varato una legge di portata storica, destinata a cambiare – si spera non solo formalmente – le dinamiche di compravendita dei terreni tra contadini, Stato e multinazionali.

In attesa dell’ufficializzazione da parte del presidente Pranab Mukherjee, il Right to Fair Compensation and Transparency in Land Acquisition, Rehabilitation and Resettlement Bill è virtualmente l’argine che i legislatori indiani hanno eretto davanti alla pratica degli espropri forzati, piaga che accomuna l’India al vicino gigante cinese nella costrizione alla svendita di terreni da parte di contadini e gruppi tribali, impotenti davanti allo strapotere delle multinazionali appoggiate dalle autorità locali.

Solo negli anni 2000 l’India ha registrato numerosi casi di appropriazione forzata delle terre, effetto collaterale della crescita scomposta del subcontinente fatta di sfruttamento delle risorse naturali, industrializzazione selvaggia e organizzazione di grandi eventi, appendice del debole soft power indiano.
Nel 2003 la Vedanta Resources, azienda mineraria con sede a Londra, firmava un memorandum d’intesa col governo locale dell’Orissa per la costruzione di una raffineria per alluminio da un milione di tonnellate all’anno, da realizzarsi nel distretto di Kalahandi; nel 2007 un nuovo memorandum d’intesa dava il via libera alla realizzazione di una miniera di bauxite nelle Nyamgiri Hills, abitate da tribali di etnia dhokra. Nel giro di alcuni anni la raffineria avrebbe sestuplicato la propria produzione, mentre l’estrazione di bauxite contaminava il terreno tribale protetto: solo una class action accolta dalla Corte suprema riuscì a sospendere le operazioni della multinazionale britannica.

Nel 2006 la Tata Motors, in accordo col governo comunista del Bengala occidentale, iniziò la realizzazione di quella che doveva essere la prima fabbrica indiana dedicata alla produzione della Tata Nano, la «monovolume più conveniente al mondo». I 400 acri nei pressi di Singur erano stati svenduti a Tata senza nemmeno consultare i contadini locali, che per anni difesero le loro terre contro le cariche della polizia, lasciando sul campo due attivisti di 24 e 18 anni. Ben peggiore fu il bilancio degli scontri di Nandigram, Bengala occidentale, dove l’opposizione popolare alla trasformazione dei campi in «zona economica speciale», tra il 2007 e il 2009, costò la vita ad almeno 30 persone.

Tra gli artefici dei soprusi spicca il governo indiano, che si impose sulla volontà popolare per la costruzione del circuito di Formula 1 in Uttar Pradesh e per i Giochi del Commonwealth di New Delhi nel 2010, assieme alla speculazione edilizia rampante in tutto il paese.
Con la nuova legge, secondo l’opinione dell’Indian National Congress, i soprusi saranno un ricordo del passato, perché al centro della norma c’è la tutela dei proprietari terrieri e di chi la terra la lavora.

D’ora in poi sarà richiesto almeno l’80 per cento di consensi tra i proprietari terrieri, fissando il prezzo della compravendita fino a un massimo di quattro volte il valore di mercato corrente. A ogni nucleo familiare legato alle attività economiche della terra il nuovo proprietario dovrà fornire una casa e un pagamento una tantum di 500mila rupie (5.700 euro), sostituibile con uno stipendio fisso di 2.000 rupie al mese per 20 anni.
Come ogni legge indiana che si rispetti nel tentativo di garantire trasparenza e controlli nell’acquisto dei terreni il labirinto burocratico pensato dai legislatori raggiunge in questo caso vette inesplorate di complessità: secondo le indiscrezioni della stampa per comprare terreni dai 50 acri in su per le zone urbane e dai 100 in su per quelle rurali saranno necessari oltre 50 documenti vidimati dalle autorità.

Un inferno di carte bollate che con il probabile aumento dei costi ha suscitato l’ira degli investitori. Una ricerca dell’agenzia Crisil, citata dall’agenzia di stampa Ians, indica che i prezzi dei terreni lieviteranno tra il 3 e il 5 per cento, mentre la raccolta dei permessi diventerebbe una caccia al tesoro della durata di quattro anni.
«La legge avrà solo effetti negativi sulla nostra economia» ha sentenziato Rajiv Kumar, membro anziano dell’istituto indiano Centre for Policy Research, interpellato dal Daily Mail. «Dai ritardi per i tempi burocratici all’obbligo del consenso dei proprietari fino al prezzo della terra, si distruggono tutte le prospettive di business. Si de-industrializzerà l’India» ha profetizzato Kumar.

Di tutt’altra idea è invece il ministro per lo Sviluppo rurale Jairam Ramesh, che ha esaltato la nuova legge come antidoto alle «espropriazioni disumane» da parte delle partecipate statali e dei privati.
«I precedenti del settore pubblico nel trasferimento forzato della popolazione sono peggiori di quelli del privato. È la triste realtà… la maggior parte degli espropri terrieri è stata fatta per progetti pubblici […]specie in aree a influenza naxalita. Ecco perché il movimento naxalita continua a crescere» ha spiegato il ministro al quotidiano The Hindu.