Ritorna a casa con un leggero sorriso sulle labbra e la voglia ardente di continuare a lottare, Sukalo Gond, donna leader del movimento del Kanhar Bachao Andolan è stata finalmente scarcerata il 3 ottobre 2018, dopo più di quattro mesi di silenzio dei media nazionali.

L’arresto di Sukalo e delle altre sue compagne (precedentemente scarcerate il 26 settembre) è stato contestato dalla commissione nazionale per i diritti umani che ha indagato sul «rapimento» illegale delle donne. «Ci hanno arrestato senza un verbale, e per più di un mese non abbiamo avuto il diritto nemmeno ad un avvocato». Con una voce calma e sicura, un bindi rosso in mezzo alla fronte, e un sari verde che le avvolge l’intero corpo, ci racconta della sua lotta e dell’arresto avvenuto lo scorso 8 giugno nel distretto di Sonbhadra.

SUKALO, DONNA ADIVASI (O INDIGENA) della comunità Gond, è una delle leader supportate dal All India Union of Forest Working People (AIUFWP) – un movimento nazionale che ha fortemente appoggiato la lotta delle donne adivasi nella difesa dell’ambiente e per i diritti umani. La lotta di Sukalo si concentra nel distretto di Sonbhadra, nello stato dell’Uttar Pradesh, uno degli stati Indiani con il maggiore livello di povertà, abitato per il 70 per cento da comunità adivasi (o indigene). «Stiamo lottando da più di 20 anni contro il sistema capitalista, contro le aziende e il dipartimento forestale; è una battaglia lunga, ma lentamente stiamo riscontrando dei risultati positivi», spiega Sukalo all’uscita della sua lunga prigionia, la seconda da quando la sua leadership ha iniziato a infastidire le autorità.

I conflitti tra gli adivasi e le multinazionali supportate dalle riforme burocratiche dello stato indiano, iniziarono già agli albori degli anni ’70 quando i ricchi territori furono minacciati dalle aziende che si appropriarono delle numerose risorse naturali.
Il distretto di Sonbhadra, che è ricco di minerali come la bauxite, il calcare, il carbone e l’oro si estende su un paesaggio meraviglioso, ed è bersaglio di questo modello di sviluppo irregolare adottato dall’India (ma non solo) dopo l’indipendenza. Già dagli anni ’80 i territori indigeni furono invasi da progetti di «sviluppo» come dighe e miniere, che hanno contribuito ad un forte inquinamento industriale devastante sia per l’ambiente che per le comunità indigene. Infatti numerose comunità furono scacciate dai loro territori, spesso in maniera violenta, e senza offrire alcuna alternativa valida o un piano di sviluppo sostenibile.

UNO DEI PROGETTI PIU’ CONTESTATI nella zona è la diga Kanhar, ancora oggi oggetto di accese contese. Originariamente approvato nel settembre 1976, il progetto prevedeva la sommersione di circa 2000 km quadrati di terra appartenenti a circa 80 villaggi, che comprendono zone dell’Uttar Pradesh, del Chhattisgarh e del Jharkhand. All’epoca si era stimato che il progetto avrebbe impattato circa 100.000 persone e annientato foreste e zone agricole; secondo le stime si parlava della distruzione di circa 100.000 alberi, 2.700 case, 500 pozzi, 30 scuole e altri edifici. Nonostante la mancanza di autorizzazioni ambientali e forestali, la diga ha continuato ad essere costruita in maniera illegale e a piccoli passi, innescando un continuo conflitto con le comunità confinanti.

Stanchi delle continue minacce e intimidazioni, nell’anno 2000 un gruppo di donne si organizza sotto il nome di Kanhar Bachao Andolan (movimento per la salvezza del Kanhar) e inizia un movimento pacifico per denunciare le costruzioni della diga, e per evidenziare e contrastare le disastrose conseguenze che essa comporterebbe sia sulla natura che sugli esseri umani.
Sukalo, che prima d’allora non aveva idea di quali fossero i propri diritti, e della possibilità di combattere contro forze che sembravano dapprima insormontabili, si rese presto conto delle innumerevoli possibilità. «Anche se lo stato non ci supporta e non ci riconosce i diritti che ci spettano, noi continueremmo a lottare e rivendicheremmo questi diritti con le nostre forze» commenta Sukalo.

Nel dicembre 2014 i lavori sulla diga ripresero, e una serie di proteste iniziarono a bloccare i lavori in corso. Con gesti di satyagraha (resistenza pacifica) interi villaggi si spostarono sulle zone invase dal letto del fiume. Ne consegue una lotta, solo inizialmente pacifica, per rivendicare quei diritti alla terra continuamente negati alla comunità. Le prime violenze si innescarono nell’aprile 2015, quando le forze armate aprirono il fuoco contro i manifestanti colpendo a morte un adivasi e lasciandone feriti altre 37. Circa 500 persone vennero denunciate e in quell’occasione la stessa Sukalo venne arrestata insieme a Roma Malik, presidente dell’AIUFWP. A distanza di tre anni la storia si ripete e nel maggio 2018 le forza armate entrano con violenza nel villaggio di Lilasi – il villaggio di Sukalo – per molestare le persone del villaggio; in quell’occasione molte donne vennero violentate e un gruppo di 12 persone, tra cui 10 donne, falsamente accusate di disboscamento. A seguito di tali violenze si aprono numerose proteste, e il 6 giugno 2018 la leader Sukalo si reca nella capitale di Lucknow per fare appello al ministero dell’ambiente e condannare le ripetute aggressioni. È al ritorno da questo meeting che viene letteralmente «rapita» dalla polizia insieme alle compagne Kismatiya e Sukhdev.

RAMMENTANDO LE VARIE VICENDE e le ultime stragi, Sukalo chiarisce: «La nostra lotta non è solo contro la costruzione della diga, ma è un movimento per il riconoscimento legale dei nostri diritti alla terra». Le violenze a Lilasi e il successivo arresto delle donne avvengono infatti a seguito della rivendicazione legale dei diritti «comunitari» da parte di 16 villaggi adivasi della zona di Sonbhadra, reclamati grazie al decreto della Forest Rights Act del 2006, che riconosce alle comunità indigene, tra cui quella Gond, il diritto alle loro terre «ancestrali».

Il sequestro di Sukalo, rappresenta l’intento del governo indiano di non riconoscere questi diritti dovuti, e annientare quel fuoco di protesta che sta invadendo le foreste indiane.