Lo sportellista della banca, la segretaria dell’università, il funzionario dell’anagrafe, il coordinatore dei tecnici della compagnia telefonica locale. Se si dovesse dare una forma in carne ed ossa alla middle class indiana sarebbe sicuramente quella di un babu, nomignolo affibbiato in India al burocrate, allo statale, all’ostacolo umano – panciuto, baffuto, fronte imperlata di sudore – che si frappone tra la richiesta di soddisfare un bisogno e l’ipotetica soddisfazione dello stesso.

Il posto da babu, svuotato dalla colpa di connivenza con l’invasore britannico, per generazioni di indiani è stato il simbolo della realizzazione personale e familiare, l’obiettivo da raggiungere con sacrifici negli studi e uno spietato senso dell’arrivismo nell’eliminare la concorrenza. Diventi uno statale e stiamo tutti tranquilli: tu, tua moglie (o marito) e i tuoi genitori, che la moglie (o il marito) te l’hanno trovata.

Le riforme di apertura economica portate dall’attuale primo ministro Manmohan Singh nel lontano 1991 dovevano rivoluzionare lo scheletro della più grande democrazia del mondo, anchilosato da un assetto di stampo socialista sovietico che, con la caduta del Muro, si rivelava inadatto ad affrontare le sfide dell’economia globalizzata. In quegli anni l’entusiasmo per la rivoluzione borghese nel subcontinente indiano si nutriva di leggende metropolitane tessute su misura dalla propaganda del «Grande balzo in avanti indiano»: l’esercito della middle class, si raccontava allora, era composto da 300 milioni di combattenti in camicia e cravatta, pronti a conquistare l’economia globale.

Vent’anni dopo, rifacendo la conta, gli standard indicati dall’Asian Development Bank (Adb) indicano che al momento la classe media indiana è composta da un quarto della popolazione, ovvero 255 milioni di persone, milione più milione meno. Significa che in India una persona su quattro spende tra i 2 e i 20 dollari al giorno. In Cina, per fare un raffronto demograficamente simile, la stessa fascia supera abbondantemente il 60 per cento.

L’aumento della classe media in India è quindi innegabile ma, statisticamente, non proprio irresistibile: un dato che faremmo bene a tenere a mente quando si parla di «potenza economica indiana», «miracolo economico indiano», «l’Era dell’Elefante» (sic!). Sono formule altisonanti che rispecchiano poco più del 25 per cento della popolazione indiana, includendoci anche i ricchissimi Ambani, Tata ed il resto della tradizione imprenditoriale indiana. Ora che l’India si ritrova invischiata nella crisi economica – il Pil è cresciuto del 4,8 per cento, minimo storico degli ultimi dieci anni – ci si domanda cosa non abbia funzionato nella rivoluzione borghese indiana, come mai la middle class non sia riuscita a trainare il resto dell’India fuori dall’indigenza, perché così pochi siano riusciti a fare il salto nella upper class.

Sambuddha Mitra Mustafi, sul New York Times, ha analizzato alcune peculiarità della classe media indiana che, assieme al catastrofico stato delle infrastrutture nazionali e ad un 25 per cento di indiani fissi al di sotto della soglia di povertà, hanno contribuito all’immobilismo dell’India di questi anni.

Questi nuovi borghesi, sostiene Mustafi, «preferiscono trovarsi un lavoro piuttosto che creare posti di lavoro». Aprire un’attività imprenditoriale è ancora aspirazione sconosciuta alla maggior parte della borghesia che preferisce di gran lunga «sistemarsi»; meglio babu che capitano di ventura, meglio attaccarsi alla carovana dei lavori statali, impieghi ai quali si può accedere con discreta facilità se si rientra nelle tabelle dei posti riservati dal governo (minoranze etniche, minoranze religiose, caste basse, intoccabili e tribali), piuttosto che inoltrarsi nella selva di permessi, timbri, bolli, mazzette e permalosità dei signorotti locali.
Alla fobia da salto nel buio si aggiunge il macigno della tradizione. Uno Steve Jobs indiano ancora fermo alla fase di esperimenti in garage non sarebbe mai in grado di trovare una moglie, o meglio, una famiglia disposta a dare in sposa a un nerd squinternato la propria figliola. Anche perché, convolati a nozze, usanza vuole che la moglie – sia essa analfabeta o ingegnere aerospaziale – dedichi la sua esistenza a crescere il pupo e sovrintendere alle didi, le domestiche che cucinano, rassettano, spazzano, lavano e fanno la spesa nella maggioranza delle case della classe media: famiglie monoreddito non per scelta, ma per tradizione.

Una volta sistemato sotto il ventilatore del suo ufficio, pur godendo di un potere d’acquisto e di uno status symbol che altrove imporrebbe uno slancio di vanità consumistica, il babu tende a non spendere.
I dati dell’ultimo censimento (2011) parlano chiaro: in India il 45 per cento delle famiglie possiede una bicicletta, solo il 5 per cento un’auto; il 63 per cento ha un telefonino, il 47 per cento una televisione, ma se andiamo a vedere la combinazione degli oggetti simbolo della borghesia – tv, computer, cellulare ed automobile – solo il 4 per cento delle famiglie indiane può vantare la collezione completa.
Il babu si immerge nelle telecomunicazioni ma, ad esempio, non compra la lavatrice. Di fronte a continui blackout e ad una forza lavoro disponibile a prezzi ridicoli, meglio «avere una didi», ovvero far lavare i propri vestiti ad una ragazza tribale che non solo conviene ma non ha nemmeno bisogno dell’elettricità o dell’acqua calda.
Il babu non si compra la casa al mare – fare il bagno seminudi è molto, molto sconveniente, roba da occidentali – non va nemmeno in vacanza, al massimo un pellegrinaggio al tempio o week-end lungo nella casa paterna, di solito in un villaggio. Ma risparmia, accumula denaro pronto a sostenere le spese per l’istruzione della prole e, in caso di figlia femmina, quelle della dote.
Il babu, insomma, non fa girare l’economia. Da un lato alimenta il circolo vizioso della povertà – lo stipendio da didi permette solo una vita da didi, non è prevista alcuna promozione sociale – e dall’altro nega al mercato quell’impulso di domanda interna utile a dare una sferzata alla produzione.

Infondere nuovo spirito alla middle class indiana è uno dei grattacapi della politica, che è già in modalità campagna elettorale per le elezioni nazionali del 2014. I temi sono crescita, modernità e sicurezza. Gli imperativi: convincere la middle class, far sognare la lower class. La ricetta economica di Singh, dopo vent’anni, pare non abbia dato i frutti sperati. Che sia il caso di correggere il tiro e, magari, affiancarci una ricetta culturale?