Da Lukacs a Benjamin, da Adorno a Jameson, da Della Volpe a Moretti, obiettivo della critica d’ispirazione marxista è sempre stato quello di coniugare l’attenzione per il contesto socioculturale in cui nasce e circola il testo letterario, con lo studio della sua forma e struttura linguistica. Il punto, però, è come tenere assieme questi due livelli in maniera convincente, evitando da un lato di scivolare verso una qualche variante della teoria del «rispecchiamento», e dall’altro di riconsegnare la dimensione formale e stilistica del testo all’ideologia dell’estetica. Uno dei meriti principali dello studio di Beniamino Placido, Le due schiavitù Per un’analisi dell’immaginazione americana (opportunamente riproposto, a quasi mezzo secolo dalla sua prima edizione Einaudi, per Feltrinelli, pp. € 13,00), sta proprio nel modo convincente in cui riesce a leggere il dato testuale alla luce del contesto storico, e viceversa.

Nella sua appassionata introduzione al volume, Alessandro Portelli scrive come Beniamino Placido gli avesse confessato «che stava cercando di diventare marxista», ma alla fine non lo sarebbe mai divenuto. A me sembra però, nel rileggere il suo libro, che almeno sul piano metodologico, in larga misura marxista lo sia sempre stato, magari a sua insaputa. Perché, come insiste lo stesso Portelli, di certo Marx era uno dei principali strumenti che Placido teneva nella sua cassetta degli attrezzi, dimostrandosi capace di usarlo con una sapienza e un acume che sovente manca a tanti studiosi dichiaratamente «marxisti».

Nel dare conto dei motivi che lo spingono a studiare in una prospettiva comparata due testi tra loro così diversi come La capanna dello zio Tom (1852), di Harriet Beecher Stowe, e Benito Cereno (1855), di Herman Melville, Placido precisa che se, com’è ovvio, «non si possono sottoporre allo stesso tipo di analisi», lo scopo resta comunque quello «di capire come un prodotto dell’immaginazione è modellato dalle tensioni storiche in cui nasce».

Per indagare come ciascun testo costruisca la sua versione della schiavitù, Placido impiega con raffinatezza gli strumenti della linguistica e della retorica, gettando luce tanto sul per nulla banale «sistema» dei personaggi dispiegato da Stowe per proporre una «strategia» del compromesso, quanto sulla figura retorica dell’endiadi che fa da fulcro alla «sovversiva» macchina narrativa del celebre racconto di Melville sulla ribellione degli schiavi a bordo della spagnola San Dominick.

Guardandosi bene dal denigrare il testo «popolare», contrapponendogli meccanicamente l’enormemente più raffinato racconto melvilliano, Placido suggerisce una lettura ravvicinata di Uncle Tom’s Cabin, permettendoci di capire che «le dinamiche interne al romanzo non sono tanto diverse dalle dinamiche esterne sottese al processo di dispiegamento del capitale americano».

Così come, da un polo opposto ma complementare, Melville, nel dimostrare la «intercambiabilità» tra bianchi e neri sulla scacchiera della nave negriera, ci consegna un’immagine la cui «valenza storico-politica» è sì quella dell’incubo di una nazione che sta per precipitare nella Guerra Civile, ma anche il più resistente spettro di una convivenza de-gerarchizzata tra bianchi e neri, tanto inevitabile quanto impossibile da accettare per l’immaginazione americana del tempo (e, nonostante molto sia cambiato, la diagnosi resta valida ancora oggi).

È un peccato che lo studio di Placido – così ricco di spunti, e scritto con quella chiarezza, quella vena ironica e quella arguzia che sono l’invidiabile marchio della sua prosa (come tali giustamente sottolineate da Francesco Cappa nella sua postfazione) non sia mai stato tradotto in inglese.
Avrebbe forse consentito di arrivare prima sia alla rivalutazione di Uncle Tom’s Cabin come capolavoro di quella «culture of domesticity» che, pur con i suoi limiti e le sue contraddizioni, ha gettato le basi del pensiero femminista americano, sia a stimolare la riflessione più ampia sulle tante narrazioni della schiavitù poi sfociata in un classico come To Wake the Nations: Race in the Making of American Literature di Eric Sundquist.

Su questi temi si è scritto tantissimo negli ultimi cinquant’anni, in America e altrove, ma Le due schiavitù ha ancora molto da insegnarci, tanto per acume critico quanto per rigore metodologico. E, soprattutto, è uno di quei rari testi critici che si legge con assoluto piacere, imparando e sorridendo a un tempo.