Tutto comincia con la scomparsa, nell’ottobre del 2005, di una giovane fotografa – Teresa Halbach – nella contea di Manitowoc, in Wisconsin. Ma in realtà tutto comincia molto prima, nel 1985, quando Steven Avery, il proprietario di uno sfasciacarrozze in quella stessa Contea, viene arrestato per lo stupro e il tentato omicidio di Penny Beerntsen, assalita mentre faceva jogging sulle sponde del lago Michigan, e che lo riconobbe in un confronto all’americana.
Condannato a 32 anni di prigione, Avery continua nonostante tutto a proclamare la sua innocenza, che verrà provata 18 anni dopo dall’esame del Dna: era stato un altro uomo, biondo e dalla folta barba come lui, a commettere il crimine.

Con il suo rilascio coperto da tutte le tv locali inizia anche a emergere l’accanimento della polizia nei suoi confronti: gli elementi che avrebbero potuto scagionare Avery – che con i suoi precedenti penali, l’abitazione in una roulotte e la scarsa educazione rappresentava il perfetto esemplare di white trash su cui modellare l’immagine del violento assassino – avevano cominciato a emergere molto prima, ma gli agenti non se ne erano curati. È così che l’uomo ingiustamente detenuto per 18 anni della sua vita fa causa alla Contea di Manitowoc, e chiede 36 milioni di risarcimento. Ma proprio quando i poliziotti responsabili della sua prolungata permanenza in prigione stanno per testimoniare al processo, Avery finisce di nuovo in carcere: i resti delle ossa di Teresa Halbach sono stati trovati nel suo sfasciacarrozze.

La premessa di Making a Murderer – la docuserie crime di Moira Demos e Laura Ricciardi la cui prima stagione è uscita su Netflix nel 2015 – è talmente pazzesca da poter sembrare esagerata perfino per un film. Non a caso diventa subito un fenomeno seguitissimo e molto dibattuto – ci sono voluti 10 anni per portarla a compimento: dall’arresto di Avery e del nipote appena sedicenne Brendan Dassey – ritenuto suo complice – alla sentenza di ergastolo nei confronti di zio e nipote, nonostante gli avvocati di Avery presentino a giudice e giuria gravi indizi di accanimento della polizia e della procura contro il loro assistito.

Ma se il desiderio di svelare un complotto e scoprire l’innocenza di Avery e Dassey accompagna inevitabilmente la visione di Making a Murderer, il suo vero punto di forza – a prescindere dall’impossibilità di escludere la colpevolezza dei protagonisti – è il racconto di un uomo imprigionato, e schiacciato, negli ingranaggi di un sistema messosi in moto al solo fine di dimostrare una tesi, e non di risolvere un omicidio.

Dalla messa in onda di Making a Murderer finisce per alimentarsi infatti un altro meccanismo ambiguo: Brendan, e soprattutto Steven, diventano delle anomale «star» nel mondo intero, ricevono migliaia di lettere e regali, e una petizione alla Casa Bianca per il loro rilascio riceve oltre 130.000 firme, tanto che dall’ufficio della presidenza degli Stati uniti (allora occupato da Obama) arriva la risposta – il Presidente non può concedere la grazia ai detenuti di uno Stato, un potere che spetta alle corti d’appello di quello Stato stesso.
Parallelamente le docuserie crime vengono prodotte a un ritmo ancora più serrato, Making a Murderer diventa uno dei capostipiti della proliferazione di un genere che a partire da questo stratosferico successo di pubblico comincia a saturare sempre più l’offerta. E la fama raggiunta da Avery cambia necessariamente anche le carte in tavola della sua interminabile vicenda processuale: al suo caso si interessa Kathleen Zellner, nota avvocata che lavora per ribaltare sentenze ingiuste e che ha all’attivo decine di scarcerazioni. L’anziana madre di Avery le aveva scritto più di una volta, invano, quando il figlio non era ancora stato reso celebre dalla serie di Demos e Ricciardi.

È proprio Zellner la protagonista della seconda stagione di Making a Murderer, uscita alla fine del 2018, che segue i tentativi dell’avvocata di far ottenere al suo assistito un processo d’appello – a partire da nuove indagini sul caso che possano individuare un altro sospetto per la morte di Halbach – e quelli degli avvocati di Dassey di far riconoscere come estorta la confessione resa nel 2005 dal ragazzo oggi quasi trentenne.
Figlia della necessità di sfruttare l’onda lunga dell’interesse globale nei confronti dei due detenuti, la seconda stagione non si concede l’ampio arco di tempo per seguire lo sviluppo degli eventi che caratterizzava la prima: documenta appena tre anni di una vicenda giudiziaria che nel frattempo riceve, in ogni suo sviluppo, una vasta copertura mediatica.

Più che del caso di Steven e Brendan si fa testimone del circo perverso che ha messo in moto, a partire dal breve fidanzamento di Avery con una sua «ammiratrice» che se ne serve per fare un tour dei talk show statunitensi. Nel cortocircuito fra racconto degli eventi e realtà, anche il documentario a puntate resta vittima del suo successo, imprigionato in un’adesione quasi in tempo reale agli eventi resa necessaria dalla struttura seriale e dal fatto che, a differenza del 2015, ora tutti conoscono Brendan e Steven. Un cortocircuito in cui è intrappolata la stessa vicenda giudiziaria, che se certo non è diventata il «processo del secolo» a O.J. Simpson pure procede in un clima di frenesia mediatica. Nonostante le battaglie dei loro legali, Avery e Dassey rimangono in prigione. La partita resta però aperta – e prelude naturalmente a una terza stagione: due mesi fa Zellner è riuscita a ottenere un riesame del caso.