La sintesi del titolo non fa gioco al complesso libro di Sergio Luzzatto, uscito qualche tempo fa per Donzelli: Un popolo come gli altri, infatti seguito dal sottotitolo «gli ebrei, l’eccezione, la storia», sembra condensare ingenerosamente fin dall’inizio le contraddizioni di un percorso composito, durato quasi vent’anni, che ha portato Luzzatto a riunire una sessantina di articoli apparsi nel tempo principalmente sulle pagine culturali di Corriere della Sera, La Stampa e Sole 24 ore. Alcuni poi erano già comparsi nella raccolta edita da manifestolibri I popoli felici non hanno storia (2009). Una raccolta piena di interesse e passione: «ho capito meglio – scrive Luzzatto nella Premessa citando Amos Oz – perché prema anche a me di tracciare e dare corpo al continuum ebraico. Non mi preme da ebreo osservante e neppure da ebreo tout court. Non mi preme da antisemita, evidentemente. Ma nemmeno mi preme (in fondo) da storico, che pure è il mio mestiere. Mi preme da lettore».

L’intento quindi della raccolta è tracciare il continuum e negli articoli raccolti infatti Luzzatto – nelle vesti in primis di recensore – analizza e interpreta con scrittura brillante venti anni di libri, per lo più tradotti in italiano ma non solo, su ebrei e questioni ebraiche. Molti di essi riguardano la Shoah, ma questa predominanza racconta qualcosa soprattutto sulla centralità di questo nella riflessione contemporanea e sul vizio dell’editoria nostrana di pubblicare molto sullo sterminio e meno sulla vita, la storia e la contemporaneità ebraica.

PROPRIO PER LA SUA NATURA di raccolta di testi disomogenei tra loro è difficile darne una lettura unitaria: a tracciarne alcuni fili conduttori la riflessione sul «popolo ebraico» e il concetto di Jewish History al quale si deve preferire la più efficace «storia degli ebrei» relativa ai contesti storici nei quale questa avviene.
Ma alcune sono questioni a causa delle quali la vis polemica di Luzzatto finisce per sbattere su porte già aperte. Una riguarda per esempio gli articoli dedicati alla libertà di ricerca – nel caso specifico lo storico fa riferimento alle polemiche seguite all’uscita del volume Pasque di sangue di Ariel Toaff nel 2007 di cui è stato un immediato e generoso difensore anche quando il libro ha suscitato polemiche accese. Riflessioni sulla libertà di ricerca che l’autore allarga alla più generale storia degli ebrei: e non c’è davvero nulla da opporre. O quando mette in guardia sull’analizzare tutta la vicenda ebraica inserendola nel paradigma della vittima piuttosto che come quella di attori della storia.

LUZZATTO è storico capace, collaboratore di testate nazionali e professore in Italia e in prestigiose università straniere e non è nuovo alle polemiche. Si veda anche il dibattito provocato dal suo Partigia, una storia della Resistenza (Mondadori, 2013) in cui analizza un episodio dei pochi mesi della Resistenza di Primo Levi – in cui la banda partigiana di Levi passa per le armi due giovani delatori – che ha suscitato perplessità e robusto disaccordo tra gli studiosi ma non il linciaggio mediatico cui fa riferimento Luzzatto in alcuni passaggi.

In questa nuova raccolta quel che sorprende è la difficoltà a definire i plurali cui il volume fa riferimento a cominciare dal sottotitolo: gli ebrei. Il plurale infatti rimanda proprio ad una visione plurale dell’ebraismo, meglio sarebbe dire ebraismi. Rapporti diversi tra singoli e ortodossia, tra ortoprassi diverse, tra differenti percorsi identitari che vanno da una sostanziale assimilazione alle maggioranze che vivono insieme e intorno all’ebraismo, a quell’ebraismo umanista che rifiuta ogni appartenenza religiosa, ad un ebraismo della memoria o ancora ad un ebraismo che non si preoccupa della relazione con il trascendente e si condensa in una robusta pratica della laicità. Percorsi plurali cui fa da sponda un vecchio adagio dell’umorismo ebraico: se ci sono due ebrei ci sono tre opinioni.

Di questa pluralità e ricchezza proprio la raccolta di quasi sessanta articoli è testimonianza: si fa infatti riferimento, tra gli altri, ai possessori di oche del ghetto di Venezia nel seicento, a Zalkind Hourwitz polacco vincitore del concorso del 1787 dell’Accademia delle arti e delle scienze di Metz dal titolo «C’è modo di rendere gli ebrei più felici e più utili alla Francia?». E ancora vi si dà conto dell’atteggiamento dei papi cattolici verso la minoranza ebraica e del silenzio che ne ha accompagnato l’agire, anche a fronte dello sterminio; di Anna Frank e dell’edizione critica del Diario; della recensione a Le Benevole di Jonathan Littell e molto altro ancora.

EPPURE tutta questa pluralità sembra poi precipitare in una costante riduzione a uno del pensiero ebraico e degli storici che ne studiano le vicende. Così nella Premessa, unico testo inedito della raccolta, si legge: «È il postulato – riconosciuto o sottaciuto, esplicito o implicito – per il quale esiste, all’interno di una storia universale, una storia ebraica a sé stante, quintessenziale, quasi metafisica che va distinta dalla storia di tutte le altre culture del mondo, di tutti gli altri popoli della terra: unica nel suo genere, grande e terribile, la storia del Popolo eletto».

Che la storia ebraica sia «quasi metafisica» è una tentazione che gli storici hanno abbandonato da tempo e definire – maliziosamente – la storia ebraica come quella del popolo eletto sembra voler consegnare mani e piedi tutta la riflessione al pensiero religioso, cosa che, oggettivamente, non è. E, comunque, proprio la definizione di popolo eletto è concetto tanto articolato e discusso dentro la tradizione ebraica quanto scivolosissimo presso il volgare pregiudizio antisemita.

Per altro, la tradizione ebraica ortodossa ben poco si occupa della storia come la disciplina che siamo abituati a pensare in Occidente da svariati secoli. Scrive ancora Luzzatto, studioso serio e in questo caso soprattutto lettore appassionato, citando Amos Oz: «La dogmatica dell’ebraismo è riuscita ad applicarsi perfino alla storia della Shoah. È riuscita a integrare perfino la soluzione finale in un discorso religiosamente ortodosso dove lo sterminio degli ebrei perpetrato dai nazisti non rappresenta altro che l’ennesimo episodio di una infinita successione di tzures, di guai». E prosegue sostenendo che i sei milioni di ebrei trucidati nella Soluzione finale siano morti tutti quanti per la santificazione del Padre Eterno, per poi mettersi a fare i conti di quanti fossero quelli figli di madre non ebrea – e quindi non riconosciuti ebrei dalla ortodossia ebraica – e quanto fossero assimilati: una sorta di autogol concettuale che fa proprie quelle categorizzazioni dell’ebraismo ortodosso a cui ascriverebbe «la dogmatica dell’ebraismo». Il tutto però a fronte di un’evidenza: che i sei milioni di ebrei siano stati assassinati solo perché ebrei dai nazisti le cui leggi razziste e antisemite poco avevano a che spartire con la tradizione ebraica, qualsiasi cosa il pensiero dogmatico in questione abbia da dire.

SEMBRA INSOMMA che la Premessa tradisca il senso dell’intero volume che dà conto, invece, nella sua molteplicità di altri libri, percorsi e vicende la cui analisi – con cui si può o meno essere d’accordo – tratteggia un panorama ben più ampio, variegato e frastagliato – e per questo più interessante – della vicenda ebraica come emerge dalle pagine culturali dei quotidiani. Nell’accusa rivolta alla storiografia ebraica di essere arroccata su sé stessa sembra invece che si scivoli da un lato e si soprassieda dall’altro sulla necessità di indagare categorie che rendano, ovviamente, la storia degli ebrei oggetto di studio come tutti gli altri ma che ne sappia anche cogliere le caratteristiche, le specificità e le originalità. Manca insomma quel ragionamento sul binomio particolarità e universalità e sulle infinite posizioni che intercorrono tra i due estremi che sembra invece quanto mai necessario e utile per indagare la modernità tutta, globalizzata o condominiale. Non solo quella ebraica.