Nel corso del tempo è stato definito in modo diverso: filosofo e umanista (Georges Didi-Huberman), cineasta etnografo e attivista visivo (Nicole Brenez), autore apocalittico (Cuauhtémoc Medina), e tra i più illustri artisti-archeologici-archivisti (Thomas Elsaesser). Definizioni eterogenee che suggeriscono l’attitudine sperimentale e interdisciplinare di Harun Farocki. Cineasta, scrittore e artista ha sperimentato ambiti e linguaggi molteplici, il cinema militante, la critica, il giornalismo televisivo e radiofonico, oltre ad aver indicato nuove modalità di utilizzo e analisi dell’immagine, passando dal film-saggio alla creazione di videoinstallazioni per musei e spazi espositivi. Un percorso che inizia come filmmaker nella scena controculturale berlinese negli anni ’60 (era nato nel 1944 a Nový Jicín in Cecoslovacchia) per terminare come autore di culto in ambito artistico nel 2014.

A due anni dalla morte, la Fundació Antoni Tàpies di Barcellona lo omaggia con una retrospettiva che raccoglie un’ampia selezione dei film militanti realizzati negli anni ’60 (alcuni recentemente restaurati e presentati per la prima volta), alcune videoinstallazioni, prodotte dalla metà degli anni ’90, e una selezione degli scritti pubblicati nella rivista FilmKritik (con la quale ha collaborato tra il 1974 e il 1984) e Trafic, testimonianze dell’aspetto pedagogico e di analisi critica, che hanno caratterizzato l’intera sua poetica.

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Harun Farocki. Empatia è il titolo della mostra, realizzata in collaborazione con l’Ivam di Valencia, ed è la seconda parte di un progetto espositivo, suddiviso nei due musei spagnoli, perché, solo in questo modo, come hanno dichiarato i curatori Carles Guerra e Antje Ehmann, è possibile presentare la maggior parte del suo lavoro. All’Ivam sono state raccolte opere che indagano lo statuto dell’immagine «operativa» che non intende né intrattenere né informare, come ha scritto lo stesso Farocki nel testo Desconfiar de las imágenes. Opere ideate dopo la prima guerra del Golfo, momento in cui Farocki si sente chiamato in causa per analizzare i dispositivi visivi utilizzati in ambito bellico, dalla video sorveglianza alle immagini digitali per simulare virtualmente azioni in teatri di guerra. Tra queste ricordiamo le videoinstallazioni Eye/Machine, Serious Games e Parallel, in cui l’artista verifica come videogame e visori di realtà virtuale possano essere usati per il training e/o il recupero terapeutico dei soldati americani presenti in Iraq e in Afghanistan. Un «archivio» che permette a Farocki di riflettere sull’evoluzione dei videogiochi e della realtà aumentata, divenute campo di studi che mettono in discussione l’egemonia del cinema e dei suoi diversi generi, tra cui quello documentario stesso.

È invece il «lavoro» il tema al centro delle opere esposte nella mostra alla Fundació Antoni Tàpies (visitabile fino al 16 ottobre), riguardante sia le tradizionali forme di produzione materiale sia quelle immateriali proprie della società contemporanea. In The Silver and the Cross Farocki analizza un dipinto del pittore Gaspar Miguel de Berrío, realizzato nel 1758: si tratta dell’iconografia urbana di Potosí, città che dal XVI al XVIII secolo è stata la più importante dell’America Latina e il centro mondiale dell’estrazione di argento, film-saggio in cui riflette sulla colonizzazione europea e il controllo delle modalità produttive, che per la popolazione locale ha determinato schiavitù e sfruttamento.

In Comparison via a Third si occupa invece dell’automazione del lavoro nella società industriale per interrogare, attraverso le immagini, l’idea stessa di sviluppo e di progresso. «Da un punto di vista curatoriale è stato necessario utilizzare due spazi espositivi, per mostrare il maggior numero di opere, precisa Carles Guerra. E aggiunge: «La scelta di individuare due temi non intende precludere dialoghi tra le due mostre, anzi vuole essere un omaggio a Farocki che ha spesso utilizzato lo split screen: basti pensare a Interface, la sua prima videoinstallazione in cui commentava i precedenti lavori. L’utilizzo dello split screen nasce dalla visione del film Numéro deux di Godard (1975), opera che gli ha suggerito nuove forme di relazioni e di montaggio tra le immagini».

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L’esplorazione sullo statuto dell’immagine documentaria e la riflessione sulla macchina-cinema, a sua volta fonte di produzione e di lavoro, si può rintracciare in molte opere, la più emblematica a questo proposito è la videoinstallazione Workers Leaving the Factory in Eleven Decades in cui, partendo dal primo film girato dai fratelli Lumière, seleziona scene simili presenti in altri film.

L’indagine sulla produzione e l’analisi delle immagini è declinata, di volta in volta, in modo diverso nel lavoro di Farocki. Si potrebbe parlarne come di un dispositivo programmato per trasformarsi ogni volta in produzione di nuovi significati che superano/eccedono il privilegio di una risposta univoca. «E se c’è qualcosa in cui si può ancora continuare a credere – ha scritto Farocki – è la necessità di creare una rete trasversale di significati». E di questa modalità reticolare, d’indagine continua, vi è testimonianza nei documentari dedicati a autori come Straub e Huillet, Peter Weiss e Vilém Flusser.