Nell’universo hollywoodiano Mochizuki Isoko avrebbe potuto ispirare Alan J. Pakula, Steven Soderbergh o Spielberg, o magari, chissà, sarebbe potuta finire al centro dell’obiettivo di Errol Morris come esempio di eccellenza nel giornalismo d’inchiesta. Nel suo paese natale, il Giappone, è stato il documentarista Tatsuya Mori a intercettarla, mettendola al centro del suo quinto film I-Documentary of the Journalist, in concorso alla 22.a edizione del Far East Film Festival (in streaming su MyMovies fino al 4 luglio).

MOCHIZUKI ISOKO è una reporter del quotidiano «Shimbun», il «Corriere di Tokyoc. Una vera giornalista, di quelle che sentono il proprio mestiere come una missione e non arretrano di fronte a nulla. Neppure davanti alle azioni governative esplicitamente mirate ad arginarla e isolarla. Fare domande scomode e non mostrarsi compiacenti con nessuno è la prima regola di ogni buon giornalista. Ma il compito si fa più arduo quando ci si trova a lavorare in Paesi in cui la libertà di espressione è minacciata. Perciò quello di Mochizuki Isoko passa dall’essere un semplice «caso», un chiaro esempio di virtuosa abnegazione, a simbolo di un’intera categoria a servizio della verità. I-Documentary of the Journalist non è, infatti, solo un ritratto, bensì la cronaca non di una, ma di più indagini portate avanti da Mochizuki con cocciuta testardaggine, fino a provocare l’irritazione del governo Abe: storie che hanno a che fare con scandali legati a episodi di corruzione, inquinamento, depistaggio. Come la vendita di terreni di proprietà dello Stato a prezzi scontatissimi a un privato, lo spostamento della base aerea Futenma dei marine americani a Okinawa con la relativa minaccia alla sicurezza degli abitanti della zona, le accuse di stupro rivolte a un uomo vicino al Primo Ministro Abe, scagionato.

LA MACCHINA da presa di Tatsuya Mori è sempre lì, con Mochizuki, durante le conferenze stampa, le manifestazioni, la raccolta di informazioni. Sempre in movimento, trolley in mano, pasti consumati in fretta lontano da una famiglia che sappiamo esistere quasi solo «fuori campo». È con lei in strada, mentre riceve le spontanee esternazioni di affetto della gente comune o piuttosto in presenza del capo segretario di gabinetto Yuga Yoshihide, quando ogni sua incalzante domanda viene puntualmente interrotta, sabotata, elusa. Anche il tempo filmico è frammentario, interrotto, non lineare, così simile al tempo di Mochizuki, costruito su tasselli di informazioni che man mano si incastrano e compongono le sue frenetiche giornate. La realtà è osservata attraverso un doppio filtro, perché anche quella di Tatsuya Mori è un’indagine alla ricerca della verità.

UNA RIFLESSIONE che parte da un caso concreto per affrontare temi universali alla base di qualsiasi democrazia, come la libertà di parola, la manipolazione dei media, la troppo diffusa sottomissione al Potere. Quella che emerge è l’immagine di un Paese ancora nazionalista e conservatore, che vede nel diritto alla libera informazione una minaccia anziché una risorsa a tutela della cittadinanza. Statistiche manipolate, interviste concordate, divieti assurdi, ma, come sottolinea giustamente Mochizuki, anche la «narrazione» portata avanti da certe testate accondiscendenti, perché a volte il problema «non è solo la notizia, ma il modo in cui ci viene raccontata». Un film sul Giappone e sul giornalismo, insomma, ma anche un avvertimento ai cittadini. A restare vigili, a pretendere risposte. A non farsi accecare, mantenere sempre una coscienza critica, una lucida capacità di analisi. Individuale.

DOPO il 25 agosto del 1944 – ricorda Mochizuki in un suo articolo, tra le cui righe risiede l’ispirazione per il titolo del film – nella Parigi liberata dal nazismo, più di diecimila donne accusate di collaborazionismo per essere andate a letto con i soldati tedeschi sono state giustiziate senza processo. «Non si tratta solo di ciò che ’noi’ facciamo o pensiamo – scrive Mochizuki -. Appartenere a un gruppo porta ad avere un unico credo. Una massa compiacente, con un unico punto di vista, produce danni irreversibili, come la Storia dimostra di continuo». «Non siate ’noi’. Siate ’io’. Prima persona singolare. Questo vi aiuterà a vedere il mondo diversamente».