Se una rassegna di jazz ha il fine di riportare le generazioni recenti davanti ai palcoscenici e di documentare il «nuovo che avanza», tra Chicago e Londra, il «Summer time» ci sta riuscendo. Fra gli appuntamenti in cartellone, l’esplosivo recital degli afrobritannici Sons of Kemet ha registrato un pubblico da record. È segno che le serate dedicate alla «nuova onda», progettate dal direttore artistico e incorniciate da Dj set (Dj Knuf ieri alla console), stanno colpendo nel segno: dopo Nate Smith, Makaya McCraven e il gruppo di Shabaka Hutchings sono attesi Louis Cole, Nubya Garcia, Khalab e GoGo Penguin.
Sons of Kemet, formazione nata a Londra nel 2011, con quattro cd alle spalle (Black to the Future, 2021, l’ultimo in ordine di tempo), è al suo ultimo tour anche se i «figli dell’Egitto nero» non sembrano in crisi. Quando vennero a Roma nel 2018 erano un gruppo di culto; oggi la loro popolarità tra appassionati, giovani e non, è cresciuta in modo esponenziale. Lo testimoniano la partecipazione intensa per la data capitolina, la costante presenza di spettatori-ballerini, la standing ovation per Hutchings (sax tenore, flauto), Theon Cross (tuba), Jas Kayser (ottima sostituta di Tom Skinner), Edward Wakili-Hick alle batterie.

UNA DECINA di brani, più di un’ora e mezza di concerto a volume elevatissimo tra l’incrocio poliritmico dei drum set, l’incedere incrollabile della tuba, il martellare sonoro ipnotico del sax tenore. I Sons of Kemet hanno privilegiato un impatto «hard», simile a quello di un concerto rock ma con al centro un «saxophone hero» statuario nel fisico e nel suono, un iper Sonny Rollins. I ritmi sovrapposti di Kyser e Wakili-Hick hanno esaltato scansioni reggae o afro; Hutchings ha inanellato brani del repertorio ridotti all’osso della dialettica «melodia-variazione ritmica», con gli interventi di Cross diviso tra impulso e solismo. Pick Up Your Burning, Think of Home, Hustie, To Never Forget The Source (dall’ultimo lavoro) sono così risuonati senza voce né arrangiamenti, nella loro bruciante immediatezza, con le eccezioni della sequenza per flauto e dell’innodico brano prima del bis.

Una decina di brani, più di un’ora e mezza di concerto a volume elevatissimo tra l’incrocio poliritmico dei drum set, l’incedere incrollabile della tuba, il martellare sonoro ipnotico del sax tenore.

CHI NON CONOSCE Sons of Kemet può intuirne i riferimenti culturali, il legame con Black Live Matters, il rapporto con la tradizione (A.Shepp ed A.Ayler), la visione afrofuturista (da Sun Ra a Kamasi Washington). Evidenti la tendenza ed un glamour sui generis. Troppo poco?
Nate Smith Kinfolk (15/7; Dj Leo) e Makaya McCraven 4tet (21/7; Dj Solko) hanno avuto largo seguito giovanile. Smith – 47 anni, nato in Virginia – ha inciso nel ‘21 l’importante Kinfolk 2: See The Birds. Grande batterista, è eccellente compositore come ha dimostrato nella prima parte del suo recital, complici i sassofoni, spesso distorti, di Jaleel Shaw, la chitarra di Brad Allen Williams e il basso di Fima Ephron. McCraven è poliedrica figura di batterista e produttore-compositore, sulla scia di Teo Macero. Nato in Francia, cresciuto in Massachusetts, allievo di Shepp, M.Brown e Y.Lateef, è maturato nella nuova scena di Chicago. Con lui il fido Junius Paul al basso e il rampante Marquis Hill alla tromba. Il concerto è andato dal remix di Frank’s Tune ad un bis tratto dal cd Where We Come Fro, dimostrando l’originalità manipolatoria e creativa della sua «organic beat music». Il nuovo che avanza.