Ti ringraziamo per avere letto la lettera che ti abbiamo scritto e per aver accettato l’invito di venire a incontrarci qui nella nostra scuola. Noi abbiamo letto la tua testimonianza scritta sui fatti di Ponte Cantone e adesso vorremmo farti delle domande. Possiamo? «Fate pure. Però dovete parlare un po’ forte, perché io ormai vado per gli 88 anni…».

La prima domanda: hai dei tuoi amici che sono morti quando c’era la guerra? «Qualcuno sì, sotto i bombardamenti. Alcuni che lavoravano in ferrovia. Perché con gli aerei c’erano degli attacchi tutti i giorni».

Ti senti fortunato a non essere stato ucciso durante la guerra?

«Sì. Anche perché ho rischiato la vita parecchie volte. Allora, anche solo ad andare al gabinetto, si rischiava. C’era un aereo che girava tutta notte. Lo chiamavamo Pippo il ferroviere. Bisognava stare attenti. Perché allora la gente non era fortunata come adesso. Non aveva il gabinetto in casa. A chi l’aveva dicevamo: “Che fortunato che sei! Hai il cesso in casa!” Ma tanti avevano il cesso solo fuori, nel cortile. Allora c’era da stare attenti a non azzardarsi ad andare mica nel cortile al gabinetto di notte con la candela. Sapete dove è il caseificio? Lì vicino ci abitava una signora. Una mia amica. Era uscita di notte con la candela. Per andare in bagno. In cortile. In quel momento lì passa l’aereo. Ha visto la luce. Ha buttato giù due bombe. Brooummm! Le ho sentite con le mie orecchie. Io e i mio fratello Ivo. Durante la notte. Perché io e mio fratello andavamo a letto insieme. Perché veniva sempre il momento che bisognava rincuorarsi a vicenda. Avevamo imparato a riconoscere i rumori dell’aereo. Io ho detto: “Ivo, Ivo, abbracciami”. E infatti, poco dopo: Broouumm!»

Come era la scuola al tempo del fascismo?

«Era che a un certo punto veniva la giornata che tutti dovevano essere vestiti da Balilla o da Giovani Italiane. Ma a me non fregava niente. Facevamo dei saggi ginnici. Poi c’erano i moschettieri. Il moschetto era di legno. E le femmine cucito e roba del genere, che poi preferivano andare dalle suore che gli insegnavano anche la sartoria. La maestra una volta mi ha dato uno schiaffone. Ma non me ne ha più dati. Perché sono andato a casa, l’ho detto a mio papà e lui me ne ha dato un altro e mi ha buttato in fondo al canale».

A quel tempo che lavori c’erano?

«C’era poco lavoro. Ma c’erano quattro lavori fissi all’anno. In inverno: macellare i maiali a casa dei contadini. In primavera: preparare il terreno per seminare i cocomeri e i meloni. Con la carriola portavo il letame dove li piantavamo. In estate: andavamo a vendere i meloni e i cocomeri. Io andavo a venderli col cavallo. Lontano. Perché avevo certe idee, non altre. E allora qualcuno aveva detto: “Guai a chi va a comprare un cocomero o un melone da Galimberti!” Infatti non veniva nessuno. Perché io andavo in Chiesa. E allora se andavi in Chiesa eri visto male dai partigiani». E’ vero che dopo l’attentato dei partigiani sulla via Emilia i tedeschi avevano piazzato i cannoni per bombardare le case del Cantone? Tu i cannoni li hai visti? «No. Ma so che erano stati piazzati contro le case. Me lo ha detto il curato». Oggi qualche consiglio da darci? «Una sola cosa: non imparate da quelli che sono adesso i politici. Perché secondo me non vi insegnerebbero mica tanto bene. Perché bisogna cercare di andare d’accordo, bambini. Perché se una cosa va bene, va bene per tutti. Invece c’è sempre uno che vuole sopravanzare l’altro. C’è sempre uno dice: “Tu stai zitto che comando io!” Così non va bene. Anche adesso, purtroppo, stiamo vivendo una situazione poco simpatica. Perciò io vi dico solo una cosa: cercate di essere voi stessi. Di farvi una mentalità vostra. Incominciate a leggere. Io alla vostra età leggevo già i giornali. Cercate di sapere già adesso cosa può essere giusto e cosa non lo è».