«Nel campo, la giumenta nitrì dolcemente e voltò le spalle alla sua ombra tremolante riflessa nell’abbeveratoio. Si incamminò verso la staccionata, a ovest. La luce splendente del giorno, le colline eterne sotto quel vento che soffiava delicatamente sulla terra, invisibile come la mano torturatrice del tempo»: si chiude così, con una invocazione all’ovest, ovvero all’inconscio segreto dell’Irlanda, Neve nera (66thand2nd, traduzione di Riccardo Michelucci, che già aveva curato l’esordio di Lynch, Cielo rosso al mattino, pp. 282, euro  17,00) il secondo romanzo di Paul Lynch, tra i più interessanti scrittori della sua generazione, faticosamente liberatosi dagli altalenanti entusiasmi e dalle depressioni della cosiddetta «narrativa della Celtic Tiger», che a sua volta aveva tentato di emanciparsi da giganti del romanzo quali Joyce e Beckett, Flann O’Brien o John McGahern, cui Lynch sembrerebbe guardare: scrittori che spesso, al costo di produrre trame minimalistiche e poco importanti, puntavano tutto, o quasi tutto, sullo stile.

Il ritorno, poi l’incubo
Quella di Paul Lynch non è la scrittura iperbolica e colloquialmente traboccante di tanta narrativa irlandese urbana, né ammicca all’evocatività caustica e fatalista di un noir pastorale tipico di tanti scrittori della seconda metà del Novecento. La sua lingua è una continua invenzione, persino sintattica, che strizza l’occhio ai dialetti del nordovest dell’isola, ma dal loro regionalismo non si lascia irretire. È stato fatto notare come questo scrittore poco più che quarantenne, forse per via del suo passato vissuto nel nord dell’isola e del suo presente prevalentemente cittadino, riesca a suscitare persino nel lettore autoctono una sorta di straniamento linguistico, tramite un esilio lessicale e sintattico che contribuisce alle atmosfere immancabilmente oscure dei suoi romanzi.

La resa italiana di Neve nera punta dunque, giustamente, sull’eloquio «sontuoso» di Lynch: un periodare che crea paralleli effetti defamiliarizzanti, proprio per via del contrasto con la trama e con il suo contesto. Se da un alto, infatti, il plot sapientemente allude alla storia irlandese, soprattutto tramite i temi chiave dell’emigrazione, della diaspora, e del ritorno, dall’altro prende le distanze da quella stessa storia, non fornendo troppi punti di riferimento, e anzi sottraendo al lettore la possibilità di una precisa localizzazione spazio-temporale.
L’editore inglese ha scelto di sottolineare il confronto con un genere, quello del romanzo pastorale, le cui regole Lynch scardinerebbe: la storia è infatti quella di un emigrato che al suo ritorno in Irlanda investe ogni risparmio per realizzare il sogno di una vita, l’acquisto di una fattoria, la quale, distrutta da un incendio che si scoprirà doloso, diverrà per lui però un vero incubo. Tuttavia, i paralleli più appropriati, anche grazie alla complessità stilistica, li si trova nella narrativa americana di Faulkner, o in certi quadretti disincantati e dolorosamente tragici di Oscar Wilde (in Dorian Gray o in alcune sue «favole» dark).

La trama, le cui chiavi di lettura sono soltanto sussurrate, ci parla, come tanti romanzi irlandesi del Novecento, della rovina di una famiglia, del provincialismo di esistenze condotte tra i pregiudizi e i sospetti di comunità rurali, del titanico tentativo di un eroe non-eroe di sobbarcarsi l’onere di raddrizzare tempi fuor di sesto. E si risolve, come già accadeva nell’opera prima di Lynch, scivolando in un universo visionario: una apparizione, serena ma non rassicurante, chiude infatti il romanzo, e ricorda il finale di uno degli episodi più allucinati dell’Ulisse di Joyce, il quindicesimo, in cui compare sotto gli occhi dell’incredulo Bloom nientemeno che il fantasma di suoi figlio, morto in tenerissima età.
Il romanzo di Lynch ha, non a caso, ambizioni anche mitologiche: il nome del povero cane di famiglia è Ciclope, lo stesso scelto da Joyce per identificare l’episodio più politico del suo Ulisse, il dodicesimo.

Come tutte le storie di Lynch – ne è prova il romanzo successivo, Grace, che si sta guadagnando uno spazio e riconoscimenti critici di tutto rispetto – anche Neve nera non ambisce a regalare certezze, e men che meno speranze. L’ironia, o anche quegli interludi comici che hanno fatto e fanno la fortuna della letteratura irlandese moderna e contemporanea, sono quasi del tutto assenti.

Distanze dal realismo
Lo stile ricercato, ma non compiaciuto, la prosa straniante che lascia moltissimo all’immaginazione, e la continua ricerca di effetti tra il misterico e il misterioso, fanno di questo romanzo un’opera di cui tener conto nell’evoluzione della narrativa irlandese, che va in una direzione sempre meno realista, e a volte si insinua nelle ombre dei tormenti che affliggono il passato di un inconscio collettivo mai risolto, quello di una nazione ancora profondamente e fatalmente divisa.