In un saggio del 1919, Georg Simmel sosteneva che «il fascino della rovina sta in ultima analisi nel fatto che un’opera dell’uomo possa esser percepita come un prodotto della natura». Lo scritto in questione voleva riflettere sul rapporto tra uomo, paesaggio e architettura e vedeva nelle rovine il punto di incontro tra natura e cultura, uno spazio all’interno del quale l’umanità può finalmente deporre le armi del suo dominio sul mondo e ristabilire un contatto pacifico con le leggi e le istanze della madre terra. Questa tipologia di riflessioni estetiche aveva interessato molti pensatori nell’Ottocento. È il secolo del Romanticismo, dei Grand Tour in Italia, di Goethe, dove il rapporto nostalgico con la storia è al centro di un intenso dibattito filosofico, sociologico, architettonico. Lo stesso Simmel è figlio di questa tradizione.
Ora, è proprio all’interno di questa cornice che possiamo analizzare un’operazione estetico-archivistica tutta contemporanea. Si tratta del formarsi di una nuova disciplina architettonica promossa dai collettivi Alterazioni Video e Fosbury Architecture e che prende il nome di Incompiuto. Lo sforzo di questi giovani artisti è volto a indagare «il fenomeno delle opere pubbliche incompiute in Italia attraverso una prospettiva estetica, rintracciando e ricostruendo gli elementi di uno stile unitario: lo stile dell’Incompiuto, il più importante stile architettonico italiano dal secondo dopoguerra a oggi». Dopo esser stato protagonista della biennale Manifesta a Palermo, oggi il progetto si racconta attraverso il volume Incompiuto La nascita di uno stile (Humboldt Books, pp. 332, euro 30,00). Il testo si suddivide in due parti: una espositiva e una critica. La prima raccoglie e documenta fotograficamente le centinaia di opere incompiute collocate in tutta Italia. Palazzetti dello sport, viadotti, case popolari: un archivio di tutte quelle architetture che, spesso per motivi legati alla mala gestione e alla criminalità, sono state abbandonate a loro stesse. Una collezione proveniente da diverse città e regioni che però restituisce al lettore un’immagine unitaria dell’Italia del dopoguerra, quella di un Paese incapace di valorizzare il suo paesaggio e le sue infrastrutture. La seconda parte, invece, utilizza questo catalogo per lanciare l’idea più interessante: quella secondo cui l’Incompiuto non sarebbe unicamente un inventario o un documento catastale, bensì un vero e proprio stile architettonico, un nuovo sentimento estetico grazie al quale è possibile riappropriarsi di edifici e opere pubblici che altrimenti rimarrebbero allo stato di meri errori.
Sotto questa luce, ci troviamo di fronte, secondo gli autori, a delle vere e proprie anti-rovine. Perché, se è vero che anche l’Incompiuto è stato abbandonato dall’uomo e risospinto verso il grembo della natura – come le rovine antiche analizzate da Simmel –, è altrettanto vero che in questo caso non vi è niente che assomigli a un «ritorno alla natura», al ricordo di un passato puro in cui mondo e uomo costituivano un’unità armonica e indissolubile. L’Incompiuto, cioè, guarderebbe al futuro anziché al passato, a ciò che sarebbe potuto essere ma non è stato, ai sogni e ai desideri di potenza che per un attimo hanno dato all’uomo l’illusione di poter costruire una realtà a propria immagine e somiglianza. Ed è in quest’ottica che prendono forma i numerosi contributi, come quelli di Marc Augé, Salvatore Settis, Wu Ming, Robert Storr, Paul Virilio. Ognuno di essi si interroga sullo statuto estetico-stilistico dell’Incompiuto partendo dal medesimo ordine di domande: questo tipo di opere ha a che fare con la nostalgia o con la speranza? Sono il simbolo di un fallimento o preconizzano la capacità dell’uomo di sognare oltre le sue effettive abilità burocratiche, operative, realizzative?
Le interpretazioni sono molteplici, ma, forse, possono essere riassunte da uno dei nove principi che formano la sezione dedicata al Manifesto Incompiuto. Si tratta del IV: «Le opere incompiute sono rovine contemporanee generate dall’entusiasmo creativo del liberismo. Prodotti di un tempo compresso hanno come postulato la parziale esecuzione del progetto. Non cadono in rovina ma sorgono in rovina». Ecco in cosa consiste questo nuovo stile, propriamente italiano: le nostre «rovine» non sono il simbolo di un calmo riposare in seno alla natura e al tempo, ma al contrario rappresentano una volontà di potenza tracotante, che non può mai trovare appagamento nella realizzazione di uno scopo e di un fine.
Le rovine incompiute sono la hybris di una società ingorda e ultraliberista, che non costruisce utilitaristicamente, con l’obiettivo di raggiungere un preciso obiettivo, ma all’opposto edifica e pianifica assecondando il proprio impulso a volersi affermare con qualunque mezzo su un mondo che altrimenti le opporrebbe resistenza. Al contrario di Simmel, qui il piacere estetico non è legato all’accettazione benevola di una natura che riprende il potere sulle cose dell’uomo, bensì è connesso allo schiudersi di un precipuo contrasto ontologico: quello fra il soggetto-uomo che vuole e l’oggetto-mondo che resiste. «Nostalgia o promessa?», chiede Augé all’inizio del volume. Forse, risponderemmo: entrambe. Di fronte all’Incompiuto, la nostalgia emerge dal ricordo originario del momento in cui l’opera era, almeno sulla carta, pronta, progettata, completa. Le si oppone la promessa, che ne prende il posto nel momento in cui l’esecuzione del progetto naufraga e l’homo faber è costretto a spostare in un avvenire imprecisato la possibilità di dare forma e sostanza al suo desiderio di dominio.