Anche ammesso che si tratti di un contratto capestro, non ci sono gli estremi dell’usura, né della truffa, nel pur onerosissimo accordo firmato dal Monte dei Paschi con Banca Nomura per la “ristrutturazione” del fallimentare derivato Alexandria. Questo giudizio del tribunale del riesame di Siena chiude, con tutta probabilità, una delle pagine più rilevanti e controverse della grande inchiesta avviata dalla procura sulla gestione complessiva di Rocca Salimbeni nel quinquennio 2007-12.

La decisione del riesame – giudizio collegiale del presidente del tribunale di Siena, Stefano Benini, e dei suoi colleghi Andrea Valchera e Francesco Bagnai – dà ragione al gip Ugo Bellini, che alla fine di aprile non aveva convalidato il decreto di sequestro d’urgenza disposto dalla procura contro Nomura, per un ammontare di un miliardo e 800 milioni di euro. L’enorme somma era stata data nel 2009 in garanzia da Mps alla banca d’affari giapponese, nelle pieghe della ristrutturazione di Alexandria. Era l’effetto diretto di un un accordo finanziario di derivati di 30 anni, con un largo ammontare di titoli di Stato italiani (3,05 miliardi) come collaterale. Dunque un contratto terribilmente oneroso, per giunta finito subito nella cassaforte del dg Antonio Vigni, e non comunicato ufficialmente alle autorità di vigilanza italiane.

Secondo i pm Nastasi, Natalini e Grosso, in quell’accordo stipulato dagli allora vertici del Monte (insieme e Vigni il presidente Giuseppe Mussari e il capoarea finanza Gianluca Baldassarri) con l’ex Ceo di Nomura per l’Europa, Sadeq Sayeed, e con il responsabile italiano della banca nipponica Raffaele Ricci, si potevano ravvisare due precise ipotesi di reato: usura e truffa. Ma nel primo caso il gip Bellini aveva osservato che all’epoca il Monte non era ancora (ufficialmente, ndr) in crisi finanziaria, tanto da essere considerato in stato di bisogno. Quanto alla truffa, se è vero che il contratto stipulato con Nomura era stato nascosto nella cassaforte di Vigni, dentro la banca c’era chi conosceva la natura dell’operazione: agli atti ci sono testimonianze di dirigenti dell’area finanza e del risk management, che avevano capito quali sarebbero stati gli effetti della transazione. E si erano, seppur inutilmente, opposti. Infine il giudice delle indagini preliminari aveva obiettato che non c’era l’urgenza di procedere al sequestro, visto che si trattava di una transazione finanziaria ormai vecchia di quattro anni.

Soddisfatti, va da sé, i legali di Nomura: “E’ chiaro che l’impianto con cui il gip non aveva convalidato il sequestro per Banca Nomura ha retto anche davanti al tribunale del riesame – commenta l’avvocato Guido Alleva – peraltro ho sempre pensato che fossero misure oggettivamente estreme e inadeguate. Non ho ancora letto il provvedimento – aggiunge – ma era chiaro che si tratta di contratti e rapporti tra banche internazionali”. All’attuale management di Rocca Salimbeni a questo punto non resta che puntare sulla causa civile avviata al Tribunale di Firenze. Con una richiesta a Nomura di risarcimento danni valutati in ben 700 milioni di euro per il caso Alexandria. Mentre per l’altro fallimentare derivato Santorini, la cui “ristrutturazione” è stata operata da Deutsche Bank, la richiesta di risarcimento è di 500 milioni. In entrambi i casi si andrà comunque per le lunghe.

Sul fronte penale invece l’inchiesta Mps è alle battute finali. Nei giorni scorsi il sostituto procuratore Aldo Natalini ha ascoltato a Londra con rogatoria internazionale alcuni funzionari della banca d’affari statunitense JP Morgan. Al centro delle testimonianze l’operazione di acquisizione di Antonveneta, e soprattutto l’emissione del “Fresh” da un miliardo di euro che nel 2008 era stato indicato dai vertici della banca senese come aumento di capitale. I funzionari di JP Morgan – peraltro azionista di minoranza di Rocca Salimbeni – avrebbero invece confermato i sospetti dei pm e della Guarda di finanza, spiegando che quel Fresh era in realtà consistito in un prestito vero e proprio e non in un aumento di capitale. Tutto questo finanziamento e i contratti collegati (le indemnity), così come nel caso Alexandria, sarebbero stati tenuti nascosti agli organi di vigilanza.