Semplicemente Cimino, questo il titolo originale della biografia monumentale di Charles Elton ora tradotta da Anita Taroni per Baldini+Castoldi (540 pagine, 25 euro) con il titolo Michael Cimino. Dunque un titolo originariamente ancora più icastico, ancora più stringato, come per provare a mettere a fuoco la figura ieratica di un regista che fu una delle migliori rivelazioni prodotte da un movimento cinefilo di rinnovamento – lui che cinefilo non lo è mai stato – come quello della New Hollywood. Ma anche il simbolo di una delle carriere più fallimentari che videro Michael Cimino scivolare rapidamente nel gorgo dei paria e dei falliti, categoria più che mai negletta a Hollywood e tra i suoi produttori. Elton, già abile romanziere, costruisce una narrazione che prova a indagare i motivi intimi di una sconfitta cercando di abbattere i cliché che ne hanno nascosto motivazioni e aspirazioni, tuttavia l’indagine sembra naufragare pagina dopo pagina, tentavo dopo tentativo. Cimino resta così inesorabilmente Cimino, altri aggettivi risulta difficile apporli che siano di merito come di demerito.

SEMBRA IMPOSSIBILE definire nel profondo l’umanità complessa e misteriosa di un artista trovatosi tale in un luogo che difficilmente sa accoglierne e ancora più facilmente li fagocita. Da Thunderbolt and Lightfoot del 1974, che cementa l’amicizia e la stima tra Michael Cimino e Clint Eastwood nata grazie alle abilità di Cimino come sceneggiatore per il secondo e il terzo film della serie Dirty Harry con protagonista l’immarcescibile Ispettore Callaghan, a Il cacciatore del 1978, sta in due pellicole l’ascesa di un regista capace come pochi di mettere e muovere la macchina da presa.

Una carriera che vale sei anni, questo il tempo concessogli da Hoolywood che con lo schianto – ormai leggendario (purtroppo) – de I cancelli del cielo del 1980 vede sostanzialmente spegnersi una delle più incredibili parabole cinematografiche del Novecento. Cimino di Elton è sicuramente un’ottima introduzione al mondo e all’immaginario del regista newyorkese e riesce anche a definirne la singolarità rispetto a chi insieme a lui emerge in quegli anni, una differenza che è culturale, ma anche di prospettiva e di visione dell’oggetto cinematografico. Tuttavia non riesce a cogliere la sostanza di una vera e propria tragedia artistica che va al di là del fallimento de I cancelli del cielo, oggi in parte rivalutato e sicuramente afferente a un cinema di culto e d’autore.

L’IMPRESSIONE è che Michael Cimino, il meno cinefilo degli autori di quegli anni, abbia subito più di altri il disincanto per un mezzo, il cinema, che stava perdendo – e sempre più dagli anni Ottanta – una centralità culturale e sociale che lo aveva portato a diventare una settima arte. Il cinema di Cimino non è infatti per ambizione e anche certamente per egocentrismo del suo autore, contenibile. Il suo cinema è un oggetto che punta all’estremo radicale e su questo aspetto Charles Elton sembra scegliere una chiave più fatalista che meno restituisce della complessità di un autore che resta difficile da cogliere appieno.