Prima il massacro, poi la tregua. Un modo particolare per annunciare un cessate il fuoco, quello della petromonarchia saudita: venerdì sera i raid hanno ucciso tra gli 80 e i 120 civili a Taiz, nel centro dello Yemen, da tempo teatro di scontri tra i ribelli Houthi e le forze governative del presidente Hadi. I jet della coalizione anti-sciita hanno colpito la zona portuale di Mokha, abitata da ingegneri, operai del vicino impianto elettrico e dalle loro famiglie. Non proprio un covo di combattenti. Ora Mokha è quasi del tutto scomparsa, ridotta in macerie.

Poche ore dopo, ieri pomeriggio, Riyadh ha annunciato 5 giorni di tregua unilaterale, a partire da stamattina. Stop ai bombardamenti contro un paese martoriato che piange già 3.600 vittime. La tregua giunge dopo quella fatta fallire dagli stessi sauditi alla vigilia della fine del Ramadan. Cosa cambia stavolta? Secondo l’Arabia saudita, la differenza sta nella richiesta del presidente Hadi: questa volta è stato Hadi a chiedere la sospensione dei raid, in una lettera diretta al re, nella quale pregava che si permettesse la consegna di aiuti umanitari. Pare quasi che Riyadh voglia far credere che a muovere la sua mano sia la leaderhship governativa yemenita, e non i calcoli politici dei Saud.

Anche stavolta però basterà – dicono i sauditi – la violazione della tregua da parte degli Houthi per riprendere le ostilità: difficile credere che il cessate il fuoco reggerà, visto che la tregua è unilaterale. E i ribelli, seppur in difficoltà sul terreno, hanno già dimostrato in passato di non tenere conto delle mosse di Riyadh, considerata la responsabile della crisi.

Sul campo l’avanzata sciita è stata interrotta dalla perdita di Aden a favore delle forze governative che, sostenute dai jet sauditi ma soprattutto da al Qaeda, hanno ripreso lo strategico porto. Un colpo duro per il movimento Houthi e i suoi alleati. Tra questi l’ex presidente Saleh che nei giorni scorsi avrebbe incontrato rappresentanti diplomatici di Stati uniti, Emirati Arabi e Gran Bretagna, nell’obiettivo di aprire la strada ad una transizione pacifica e politica.

Giovedì un membro del partito del Congresso, di Saleh, ha parlato alla Reuters di «significativi progressi» nel negoziato in corso al Cairo, seppur il partito stesso neghi. Se la notizia fosse confermata, uscirebbe con forza il ruolo dell’Egitto, in prima linea al fianco dell’Arabia saudita lo scorso marzo per lanciare l’operazione anti-Houthi.

Seppur proprio dalla capitale egiziana il ministro degli Esteri saudita abbia invocato una soluzione politica, è improbabile che Riyadh molli l’osso adesso. La vittoria di Aden ha indebolito gli Houthi e dato nuova forza al fronte opposto, il cui obiettivo è riprendersi lo Yemen.

C’è fretta: la pesante controffensiva saudita lanciata subito dopo la firma dell’accordo sul nucleare è indicativa delle intenzioni di Riyadh. Prima che Teheran approfitti degli enormi guadagni – frutto della fine dell’embargo e delle sanzioni internazionali – per allargare a macchia d’olio la propria influenza sulla regione, Riyadh deve riassumere il controllo esercitato da decenni su quello che considera il proprio cortile di casa.

Anche se questo richiede migliaia di vite, i cui responsabili sono molti: secondo un rapporto di Human Rights Watch, le armi usate nella guerra civile yemenita arrivano direttamente dall’Europa, vendute agli Emirati Arabi che partecipano attivamente ai raid. Tra le società coinvolte anche l’italiana Rmw Italia Spa, sussidiaria della tedesca Rheinmetall. Dagli Stati uniti giungono invece le famigerate bombe a grappolo.