Il governo yemenita ha rassegnato le dimissioni. E, a stretto giro, anche il presidente Hadi ha abbandonato, lasciando Sana’a in preda al vuoto politico. L’annuncio è stato dato ieri sulla pagina Facebook del premier Baha, nominato a novembre su pressione Usa e Onu: «Vogliamo evitare di essere trascinati nell’abisso delle politiche basate sull’assenza di legge». Secondo fonti vicine all’esecutivo tecnico, la decisione è stata dettata dalla disfatta dell’accordo siglato dai ribelli Houthi e dall’ex presidente Hadi (le cui dimissioni sarebbero state rigettate dal parlamento).

Un accordo a metà: per bloccare sul nascere un possibile golpe, Hadi ha accettato molte delle richieste della minoranza sciita che da lunedì occupa il palazzo presidenziale, in cambio del ritiro dalle sedi del potere costituito.

Ma, seppure la leadership Houthi avesse riconosciuto «la legittimità» di Hadi, nella serata di ieri i ribelli controllavano ancora armi in pugno la capitale. «La bozza di costituzione è aperta a emendamenti, cancellazioni e aggiunte», queste le parole del presidente che aveva poi sottolineato il diritto degli Houthi a ricoprire ruoli istituzionali e a prendere parte al processo decisionale. Una vittoria per la minoranza sciita, tanto forte da permettersi di rimandare il ritiro dalla capitale e la liberazione del capo di gabinetto Mubarak (sequestrato sabato) «ai prossimi giorni», quando l’accordo sarà implementato.

«L’accordo – ha commentato uno dei membri del politbiuro Houthi, Mohammed al-Bukhaiti – conferma l’importanza dell’Accordo di Partnership», siglato a settembre sotto l’egida Onu e che avrebbe dovuto formare un governo di unità dopo il lancio dell’offensiva sciita nella capitale e verso l’ovest del paese.

Troppo stretta la morsa in cui il presidente era schiacciato: da una parte gli Houthi, ufficiosamente sostenuti dall’Iran; dall’altra l’alleato saudita che dopo la caduta di Sana’a ha tagliato i finanziamenti. Così Hadi si è piegato al volere degli Houthi, dicendosi pronto a rimettere mano alla costituzione in fieri e negando, per bocca dei suoi portavoce, di essere agli arresti. Ma la divisione interna rimane, soprattutto dopo le dimissioni di presidente e premier: in sospeso resta la prevista riforma di federalizzazione del paese e, elemento non secondario, il ruolo giocato dall’ex dittatore Saleh.

Tra le accuse mosse alla minoranza sciita c’è lo stretto legame con i fedelissimi dell’ex presidente deposto nel 2012. A smuovere le acque, una registrazione resa pubblica da al Jazeera: una telefonata, risalente ad ottobre, durante la quale Saleh coordinerebbe la strategia militare e politica dei ribelli insieme al leader Houthi Abu Ras.

Washington – che vede nello Yemen non solo un paese strategico per risorse energetiche e vicinanza a Riyadh, ma anche un simbolo della lotta al terrorismo a distanza, senza «stivali sul terreno» – non nasconde la preoccupazione per gli effetti che la crisi yemenita ha sulla lotta ad al-Qaeda. E non solo: lo Stato Islamico si muove da mesi nel paese. Secondo i servizi segreti Usa, si tratterebbe di qualche centinaia di miliziani affiliati all’Isis, contro migliaia di qaedisti, ma il potere di attrazione del califfato potrebbe permettere ad al-Baghdadi di ampliarsi in un’area considerata tra le più fertili in termini di nuovi adepti.