Siamo in equilibrio precario su un sasso nero tagliente dimenticato nel centro del Mediterraneo, tra Lampedusa e la Sicilia. Arrivare a Linosa è un’impresa, partire un azzardo: se soffia il maestrale il capitano non se la sente e la nave non arriva. I linosani sono abituati, i turisti affezionati si lamentano ma è quasi con piacere che vanno incontro ai disagi per sottomettersi alla potenza della natura. Su sfondo nero domina il verde: solo pale di fichi d’india e cespugli di capperi che sbucano dalle pietre vulcaniche. La sorellastra minore di Lampedusa non è più grande di cinque chilometri quadrati. Il mare è blu profondo, l’area marina protetta. Con un po’ di fortuna si può assistere al passaggio dei delfini, le tartarughe nidificano sulla spiaggia di sabbia nera e i polpi (volendo) si pescano con le mani. I linosani non pescano molto, sono isolani per caso. Ce li hanno portati dalla Sicilia poco prima dell’unità d’Italia, per popolare forzosamente l’isola. Poche famiglie. Nella seconda metà del XIX secolo vivevano nelle grotte, oggi in piccole case colorate che d’inverno sistemano per affittarle in estate. Forse è questo il segreto: un secolo e mezzo di presenza umana non è bastato per rovinare un ecosistema intatto e nemmeno sfiorato dalla storia. La fragilità ecologica di questo luogo è in equilibrio precario come l’uccello migratore che ha scelto di abitarlo per riprodursi: la Berta Maggiore, in siciliano turriaca. Qui vive la seconda colonia mondiale di berte dopo quella di Zembra, in Tunisia. Ventimila esemplari sostano sull’isola d’estate. Ci sono due strade per incontrarli. O via mare, aspettando a motore spento al tramonto, con un pescatore acchiappa turisti, oppure via terra, passeggiando lungo il sentiero delle turriache con Dario D’Emanuele, biologo linosano. Abbiamo preso la seconda strada.

Come tutti i giovani linosani anche lei vive nel «continente»…

Sì, però la mia casa è Linosa. Il laboratorio dove lavoro è all’Università di Palermo. Da sei anni, con un gruppo di ricercatori, conduco ricerche sulle berte. Grazie a finanziamenti e donazioni private ci siamo dotati di un’attrezzatura per studiare ogni fase del loro periodo riproduttivo, abbiamo anche costruito degli spot in alcuni punti dell’isola per poterle seguire durante la notte. Quello è un momento magico: quando escono alla luce delle stelle per farsi imboccare dai loro genitori che hanno aspettato che facesse buio galleggiando a 200 metri dalla costa. Aspettano in mare, il loro elemento naturale è il mare, a terra sono a disagio, si muovono goffamente come L’albatros di Baudelaire. Grazie ai nostri studi si sono messi a punto nuovi importanti protocolli di monitoraggio.

La berta non è un uccello conosciuto.

In parte è vero, ma per quest’isola la berta è l’abitante più importante. Oltre centocinquanta anni fa, quando arrivarono sull’isola le prime famiglie, la colonia di berte era il primo punto vincente di questa strana colonizzazione: era l’unica fonte di cibo oltre al pesce. Si predavano le uova di berta, quello è stato un errore ecologico enorme considerato che ogni coppia di berta depone un solo uovo all’anno. Lo faceva anche mio nonno. Portavano qui i bambini, loro infilavano le piccole braccia nelle tane e il cesto si riempiva di uova. Oggi la necessità e la tradizione hanno lasciato spazio al discorso ecologico e la berta è diventata il simbolo dell’isola.

Nessuno minaccia più le berte?

La fame dei linosani in realtà è stata solo una delle pressioni selettive esercitate dall’uomo. L’uomo porta con sé i cani, i gatti e i topi che rubano le uova, mentre gli uccelli rimangono inermi, perché i procellariformi come le berte, gli albatros, i pinguini, non hanno predatori naturali sulla terraferma e quindi non hanno imparato a difendersi. Abbiamo cercato di risolvere il danno provocato da noi stessi spargendo veleno per ratti, ma questo a sua volta risultava nocivo per i gatti e i cani e altri animali, come per esempio per i falchi che stanno diventando stanziali, proprio perché si cibano dei topi stessi. Questo dimostra che a volte è meglio che la natura faccia il suo corso: ora i falchi sono la soluzione naturale. Anche la luce artificiale delle case e dei lampioni mette a rischio la colonia di berte, perché i nuovi nati, dopo il periodo di svezzamento passato a terra (tre mesi), dovranno partire per il mare. La luce ostacola il primo volo e chi di noi si trova sull’isola a settembre e ottobre li aiuta a muoversi dall’entroterra all’acqua.

Quindi il verso delle berte, che ricorda il pianto di un bambino e che la sera spaventa i turisti, si sente solo in estate quando sono a terra.

Esatto. Le berte sono un uccello speciale, quasi unico. Non assomigliano al tipico gabbiano di mare. Vivono in media molto più dei gabbiani, tra i trenta e i cinquant’anni, inoltre non stanno quasi mai a terra, gran parte della loro vita è in mare, si portano in terraferma solo nel periodo riproduttivo. Il monitoraggio della colonia prevede un campionamento sul posto e studi relativi alle loro migrazioni o battute di foraggiamento in mare. Questo tramite l’applicazione di Gps, strumenti da 9 grammi che non appesantiscono gli animali. Ci permettono di visualizzare l’intero tracciato migratorio, da questo ci si rende conto dell’incredibile viaggio che compiono ogni anno. Maschi e femmine viaggiano separati. Le femmine percorrono il doppio dei chilometri dei maschi arrivando anche sulle coste del Nord Carolina, i maschi si fermano in Mauritania.

È vero che sono monogami?

Sì. Le coppie restano insieme per tutta la vita e hanno come solo scopo il successo riproduttivo dell’unico uovo che depongono ogni anno. Per gli animali migratori la monogamia è una strategia di successo riproduttivo. Si risparmiano la fatica di scegliersi ogni anno un compagno, concentrando le energie nei pochi mesi che vivranno a terra sul concepimento e l’allevamento del piccolo. Una volta deposto l’uovo, all’inizio dell’estate nell’entroterra di Linosa, nutrono insieme il loro unico figlio, il pullo. Questo rimane nascosto nel nido per tutta l’estate, fino a quando tra settembre e ottobre viene abbandonato dai genitori. Spinto dalla fame, esce dal nido e si mette in migrazione. Non conosciamo il percorso dei pulli, perché le migrazioni dei giovani durano molto: i primi 7 anni stanno in mare senza toccare terra. Alla maturazione sessuale tornano qui e trovano un compagno/a per tutta la vita.

Come fanno le coppie ad incontrarsi dopo un tempo così lungo?

Sembra incredibile, ma al ritorno dal viaggio oltreoceano, la stessa coppia di berte all’inizio dell’estate si rincontra proprio qui a Linosa: sono sincronizzati al punto che dopo mesi tornano nello stesso luogo quasi contemporaneamente, e senza telefonarsi. Il termine tecnico per questo eccezionale fenomeno è filopatria, ed è collegato alla strategia della monogamia. Così facendo la coppia non solo riconosce Linosa, ma si assicura uno spazio preciso all’interno della colonia. I due ogni anno scelgono un nuovo nido, e la femmina depone un uovo che poi verrà covato da entrambi a turni alterni. Le loro grida sono inquietanti, ma non stanno facendo altro che ritrovarsi per mettere su famiglia dopo nove mesi di traversata dell’Atlantico. Ecco perché le berte sono chiamate uccelli dell’amore.

Leggendari…

Più che il pianto si un bambino sarebbe il canto delle sirene. La leggenda di Diomede racconta di quando la dea Afrodite trasformò i compagni di viaggio dell’eroe in creature mitologiche, metà pesce metà uccello, dal canto inquietante e ammaliatore. Nella storia, alcuni autori, Plinio, Ovidio, Strabone fanno riferimento alle Diomedee, quegli uccelli marini dal canto agghiacciante che ricorda il lamento di uomini: sono le berte!