Ha scritto Robert Louis Stevenson che visitare i fari significa visitare i secoli passati. Nel suo Records of a Family of Engineers lo scrittore scozzese recuperava l’antica storia della sua famiglia di inventori e ingegneri, pionieri nella progettazione di fari a partire da quelli ideati per sopperire al grande incendio dell’Isola di May nel 1791, fino ad allora unico punto illuminato della costa scozzese per chilometri e chilometri.

La scrittrice e saggista messicana Jazmina Barrera (Città del Messico, 1988) recupera, in parte, lo spirito dei Records per costruire un libro felicemente eclettico che si muove tra memorie personali e diario di viaggio, e raccontando i suoi spostamenti da un faro all’altro – alcuni iconici per la letteratura contemporanea, altri di puro interesse storico – compone una breve e vivace rassegna di «scrittori di fari», da Stevenson, appunto, al Jules Verne di Il faro in capo al mondo, da Edgar Allan Poe al Max Frisch di Montauk, fino (ovviamente) a Virginia Woolf. Il risultato è Quaderno dei fari (La Nuova Frontiera, pp. 126, euro 15, traduzione di Federica Niola).

LIBRO IBRIDO anche all’interno del genere – saggio non solo letterario, nel quale riflessioni poetiche si susseguono a informazioni storiche e persino tecniche, ad esempio sulle lanterne intermittenti e sull’architettura delle costruzioni, senza che questo disperda la forza evocativa dei luoghi visitati – il Quaderno dedica a ogni faro prescelto un breve capitolo, introduce il lettore all’atmosfera inospitale e apparentemente solitaria delle torri con racconti rapidi e dettagliati.

Ogni visita diventa un punto di partenza per dipanare fili narrativi diversi: dal faro newyorchese di Montauk Point nascono occasioni di riflessione sui versi di Whitman e sulle pagine di Frisch, ma anche il racconto di un’escursione dell’autrice con alcuni amici, durante la quale una dolorosa epifania sancisce forse la fine di un sodalizio. E così per Yaquina Head Lighthouse, Jeffrey’s Hook (il celebre Little Red Lighthouse sullo Hudson), Blackwell Lighthouse a Roosevelt Island, inattivo da quasi un secolo, il faro di Goury a la Hague, in Normandia, e infine per il Faro de Tapia de Casariego, nel principato delle Asturie (molti altri fari sono menzionati all’interno dei capitoli).

Barrera viaggia (naufraga?) tra i pensieri e tra i libri: tra le sue rievocazioni più inattese, il viaggio di Jonathan Franzen verso la sperduta isola cilena di Masafuera (che oggi non si chiama più così) per disperdere le ceneri di David Foster Wallace, autore che «aveva trovato nella scrittura il suo unico faro»; l’ossessione pittorica di Edward Hopper per i fari, dipinti in alcuni dei suoi capolavori; un diario di lettura di Walter Scott; una meditazione sul suicidio rituale di Mishima; un breve catalogo dei fari nelle città non bagnate dal mare (la Tour Eiffel a Parigi, il Trinity Buoy Wharf a Londra, la torre Latinoamericana di Città del Messico).

Quaderno dei Fari è anche un libro scritto da una collezionista che non si illude di essere particolarmente originale, né di poter concludere o possedere interamente la sua collezione: «la mia passione», scrive Barrera, «è diffusa quasi quanto quella di collezionare statuine di porcellana o francobolli (…) Collezionare fari è di per sé un’utopia. Siamo attratti dall’immagine dei fari, che in realtà è tutto ciò che possiamo avere di essi».

SI DEVE FORSE A QUESTO dichiarato sentimento di «impossibilità» – come da migliore tradizione di certa letteratura di viaggi – il velo malinconico che si posa su alcune pagine del Quaderno. E se vale a tutte le latitudini il verso colmo di saudade di Fernando Pessoa, «Viaggiare! Perdere paesi!», tanto più questo è vero per un viaggio attraverso i fari, costruzioni anomale oggi sempre più in disuso, di cui non si può essere proprietari, e che possono ospitare soltanto pochissime persone, per breve tempo, avvolte da paesaggi marini spesso ostili. E da qui Barrera ritorna all’immagine più pura del faro, in tutta la sua semplicità marinaresca, quando dalla torre luminosa di Goury, definita da Jacques Prévert «una gigantesca clessidra», ammette: «Forse è vero che mi piacciono i fari perché sono disorientata».