Arriviamo a Trissino alle 10.30 di una domenica autunnale. L’aria è umida e il cielo è velato da una grigia foschia. Propriamente non è montagna, ma lo è in apparenza, con le colline coperte di bosco e i paesi arroccati sulle alture, là dove la pianura si increspa a formare tanti sparpagliati rilievi. In alto il paese, con il campanile a dominare i tetti delle case, intorno campi bagnati e rossore di foglie. La Miteni sta lì, alle pendici di un colle, circondata da un fossato e da un muro di siepe: da fuori si scorgono cisterne e grovigli di tubature che si arrampicano in alto e si attorcigliano in basso; si sente un rumore costante, come quello di un frigorifero in funzione, o di una lavatrice. Da alcuni anni lo stabilimento chimico è accusato di aver provocato un’enorme disastro ambientale: l’inquinamento delle acque di un’area vastissima del Veneto, dalla provincia di Vicenza a quelle di Padova e Verona, coinvolgendo 70 comuni e quasi 300.000 persone. Li chiamano Pfas, e sono ovunque: nei vestiti in pelle, nelle pentole antiaderenti, persino nei cartoni della pizza. I Pfas tendono ad accumularsi nell’ambiente e nell’organismo e per questo risultano estremamente pericolosi. La Miteni sarebbe responsabile di aver sversato per anni nei propri scarichi industriali tali sostanze perfluoroalchimiche, dannose per l’uomo e per l’ecosistema. Ma quello dei Pfas è un inquinamento nuovo, invisibile e subdolo, un veleno limpido, inevidente e incolore. Scorre sotto la trasparenza delle acque, nei riflessi violacei del vino, si annida nei frutti e nelle carni, nelle spighe e nelle radici, s’insinua nell’organismo, silente, discreto. Inoltre gli studi epidemiologici in materia sono ancora molto limitati e la valutazione degli effetti sull’uomo si muove ancora nello spettro delle probabilità. Sembra tuttavia, da quanto riportano gli studi americani condotti in seguito al disastro della Dupont (disastro per altro simile a quello veneto), che l’inquinamento da Pfas sia correlato all’insorgere di patologie e tumori. Del resto i dati Istat sulla mortalità nell’area veneta coinvolta dalla contaminazione evidenziano alcune anomalie anche molto significative. Ma di questo parleremo in seguito, dopo aver ripercorso dall’origine la vicenda della Miteni così come emerge dalla relazione della Commissione Parlamentare di inchiesta.

LA MITENI, ALLORA RIMAR, sorge nel 1964 come centro di ricerca Marzotto per lo sviluppo di sostanze idrorepellenti da utilizzare nella produzione tessile. Già nella seconda metà degli anni 70, tuttavia, la Rimar si rende responsabile della contaminazione dei territori circostanti ma le sostanze riconosciute come inquinanti non sono i Pfas, bensì i benzotrifluoruri. Intervengono i Vigili del Fuoco e persino l’esercito americano. Nel 1988 poi avviene il cambio di proprietà. Lo stabilimento viene acquisito dalla giapponese Mitsubishi e da Enichem che lo trasformano in MitEni. Nel 2009 l’azienda passa a International Chimical Investors S.E., società con sede in Lussemburgo che fa parte di un gruppo industriale (Icig) con più di 6000 dipendenti in tutto il mondo.

MA ANDIAMO AL 2011, al momento in cui, a seguito di un’indagine del Cnr, cominciano ad emergere le prime avvisaglie di un inquinamento esteso e inimmaginabile. Nel 2011 il Cnr sta conducendo un’indagine per conto del Ministero dell’Ambiente, con l’obiettivo di rilevare la presenza di Pfas nei bacini idrici italiani. «Ci eravamo posti il problema di individuare le fabbriche, le unità produttive che più utilizzavano queste sostanze, al fine di verificare in loco la pressione dovuta per via di queste fabbriche», afferma Stefano Polesello, ricercatore del Cnr partecipe alle attività di monitoraggio. Il Cnr così entra alla Miteni, campiona gli scarichi dei depuratori e tutti i corpi idrici circostanti e scopre che lo stabilimento di Trissino è una sorgente di queste sostanze, poiché le produce. I dati vengono consegnati al ministero che chiede al Cnr di valutare il rischio di esposizione umana. Tra il 2012 e il 2013 l’acqua potabile al rubinetto delle zone a rischio viene campionata e analizzata, ne risultano valori anomali che il Cnr riferisce ancora al ministero. Nella primavera del 2013 i dati vengono comunicati alla regione Veneto che convoca l’Arpav e la incarica di effettuare il monitoraggio: l’Arpav ripete tutti i campionamenti alle fontanelle e ai depuratori, fino a determinare che l’inquinamento non è circoscritto alle acque superficiali ma riguarda soprattutto l’acqua di falda, quella prelevata nei pozzi privati, quella usata per irrigare gli orti, per far crescere i pomodori e le viti. Interessanti sono soprattutto i rilevamenti condotti dall’Arpav sugli scarichi dei depuratori della zona: si è constatato infatti che il 97% dei Pfas scaricati nel canale Fratta-Gorzone dal collettore Arica derivano dagli scarichi industriali della Miteni.

INTANTO SI PROCEDE CON UNO SCREENING dei valori di Pfas nel sangue della popolazione interessata. Tra luglio 2015 e aprile 2016 viene condotto uno studio esplorativo di biomonitoraggio per valutare le concentrazioni di Pfas nel sangue di un campione di persone residenti in aree a rischio. Lo studio rileva concentrazioni di Pfoa (pericoloso Pfas a catena lunga) significativamente elevate. Per dare un po’ di dati: illustri scienziati sostengono che il Pfoa nell’acqua non dovrebbe superare 1ng per litro e che i valori nel sangue dovrebbero essere 0,1ng per millilitro. Sono questi valori molto bassi che dovrebbero garantire la (quasi) totale sicurezza, come scrive il dottor Vincenzo Cordiano, ematologo da anni impegnato contro i Pfas. I limiti imposti dalla regione Veneto, tuttavia, sono sensibilmente più alti, e pongono i 90 nanogrammi per litro come quantità massima di Pfoa e Pfos nell’acqua. Ora, alcuni bambini nel territorio interessato presentano valori di Pfoa nel sangue 35 volte superiori ai limiti mentre gli operai della Miteni, da quanto risulta dalla documentazione rinvenuta presso l’azienda, hanno valori di Pfoa nel sangue pari a 90 mila nanogrammi per litro, un valore spaventoso, più di mille volte superiore alla soglia massima consentita. La questione dei limiti, del resto, ha conquistato recentemente le pagine di cronaca dopo che il Parlamento Europeo ha bocciato la proposta Pfas zero presentata dalla Lega ponendo invece come limiti i 100 nanogrammi per litro per ciascuna sostanza a catena lunga (come Pfoa e Pfos), ben al di sopra dei limiti deliberati dalla Regione Veneto.

COME RIPORTA ULSS8 BERICA, i Pfas sono assorbiti rapidamente in seguito ad ingestione ed inalazione ed entrati nel sangue tendono ad accumularsi nel plasma e vengono eliminati molto lentamente. Il tempo di dimezzamento, vale a dire il tempo necessario perché i livelli nel sangue si riducano a metà (se non si è più esposti) è in media di 5,4 anni per il Pfas e di 3,8 anni per il Pfoa. Sembra, come abbiamo anticipato, che l’esposizione ai Pfas sia correlata all’insorgere di diverse patologie a livello dei reni, delle gonadi, della tiroide. Il Bollettino della commissione parlamentare di inchiesta, datato 8 febbraio 2017, cita inoltre la relazione del prof. Farinola secondo cui l’esposizione ai Pfas potrebbe indurre disfunzioni polmonari e determinare la deformazione morfologica degli spermatozoi, oltre ad avere effetti psicosomatici sui bambini (lo studio suggerisce un’associazione tra Pfas e impulsività). Il Bollettino riporta inoltre che «nei comuni contaminati da Pfas si registrano eccessi statisticamente significativi per la mortalità generale (9-10% in più), per le malattie cerebrovascolari (da 18% a 22% in più), per l’infarto miocardico acuto (da 11% a 14% in più). Nelle sole donne, inoltre, si sono rilevati eccessi anche per il diabete, con un 32 per cento in più, e per la malattia di Alzheimer». Sono dati da non sottovalutare dal momento che la letteratura scientifica suggerisce una possibile correlazione tra queste patologie e l’esposizione a Pfas.