Leggero all’apparenza, pieno di passione e nostalgia, Il racconto di Sonecka (così il titolo originale, Povest’ o Sonecke), l’ultima e la più lunga prosa di Cvetaeva, rivela, a un esame appena più attento, una filigrana assai complessa, frutto di una natura composita: racconto lungo o romanzo breve, come è proprio della povest’ russa, a cui si mescolano però poesie e versi sparsi, brani dai taccuini, lettere della piccola Alja, la figlia di Cvetaeva, lunghi monologhi e dialoghi come pezzi di teatro (questo racconto sul teatro è esso stesso, in parte, un pezzo teatrale), mentre ogni riga contiene procedimenti poetici.

un racconto autobiografico, in cui rivive mirabilmente il più grande «amore femminile» della vita reale di Cvetaeva, Sonecka, la cui voce si confonde però stranamente con quella della Alja che popola i taccuini della madre, ma non solo: Sonecka ricorda anche, come dice Cvetaeva, la Nataša Rostova di Guerra e Pace, una delle fanciulle dei romanzi di Dickens, la Mignon di Goethe, e poi personaggi di Dostoevskij, Gogol’, Turgenev.

Ancora, e anzi soprattutto, Sonecka è un racconto in cui parole e nomi hanno la consistenza del reale. Dice la protagonista: «a scuola mi piaceva soltanto la geografia… a me piacevano i nomi, le denominazioni…». Il linguaggio della piccola Sonecka è fatto tutto di diminutivi e vezzeggiativi, il suo cognome, Holliday, ne indica la natura di festa nella difficile vita di Cvetaeva. Sonecka stessa si identifica con il suo modo di parlare: incessante, come una cascata, infantile, dove il nome di Marina, reiteratamente esclamato, intonato e quasi cantato risuona come un Leitmotiv, o dove, durante il loro ultimo incontro, la domanda «che ore sono» (l’ora è quella del treno che le separerà per sempre), interrompe continuamente il flusso del discorso, come il ritornello di un Lied in cui si aspetta la morte.

Le parole, dice Sonecka, valgono più dei fatti: «I fatti non provano nulla, le parole invece – tutto». Quando qualcuno le dirà «ti amo», lei ai fatti non crederà, «perché c’è stata – la parola». Del resto, così Cvetaeva scriveva a Rilke nel 1926: «L’amore vive di parole e muore di atti… La parola soltanto, che per me è già cosa – io voglio». Forse è proprio al carteggio con Rilke che Sonecka si riallaccia nella sua parte conclusiva: «più vi riporto in vita», dice Cvetaeva rivolgendosi ai personaggi della sua gioventù che hanno animato le pagine del racconto e da cui ora prende congedo, «più muoio, mi separo dalla vita: venendo verso di voi, in voi – muoio… come se non esistesse più barriera tra vivi e morti e gli uni e gli altri si muovessero liberamente nel tempo e nello spazio – e nel contrario di tempo e spazio». Ed è in questa nuova postura, dove vita e morte, finzione letteraria e realtà, verità e bugia, parola e cosa non sono più opposte, in questa dimensione costantemente cercata e ricreata dalla scrittura che Sonecka, ultimo testamento poetico di Marina Cvetaeva, trova il suo spazio ideale.