Alla fine degli anni Sessanta, al culmine della propria fama, Lacan vede la routine del suo insegnamento turbata dai moti studenteschi; non partecipa al movimento francese, ma la sua curiosità intellettuale ne è eccitata, firma documenti, incontra alcuni leader. Di questi fatti porta traccia il seminario XVI, datato tra l’autunno del 1968 e l’estate del 1969, appena pubblicato da Einaudi con il titolo Da un Altro all’altro (a cura di Antonio Di Ciaccia, pp. 448, e 32,00), in cui troviamo esposta, fra l’altro, la riflessione di Lacan sulla teoria marxiana del plusvalore, cui ricorre per introdurre, nel campo psicoanalitico, il concetto del plusgodere. Mentre il termine marxiano allude, come è noto, a uno tra gli effetti della produzione capitalistica, da superare tramite la prassi rivoluzionaria, il termina lacaniano costituisce l’ineliminabile correlato del linguaggio e, di conseguenza, della stessa condizione umana, determinata da una irrecuperabile perdita di godimento.

Un oggetto surrealista
Alcune provocazioni e piccole illegalità di cui si sarebbero resi responsabili certi partecipanti a questo seminario vennero usate strumentalmente per squalificare l’insegnamento di Lacan che, nel 1969, fu costretto ad abbandonare la sede dell’École Normale Supérieure per proseguire la sua attività didattica presso la Facoltà di Diritto. La conflittualità di quella circostanza è testimoniata dal dossier, in appendice al volume, che registra il protrarsi sulla stampa di un’aspra polemica perpetrata attraverso una serie di lettere, repliche e testi di appelli in sostegno di Lacan, pubblicati su Le Monde tra il giugno e il novembre del 1969.

In una sua nota particolarmente interessante, a piè di pagina della seduta introduttiva, Antonio Di Ciaccia evidenzia l’importanza, per questo seminario, di un oggetto enigmatico, il «vasetto di senape», ricorrente in almeno una decina di occasioni interne all’opera di Lacan. Spesso, il sistema teorico dello psicoanalista francese ha trovato un paradigma negli oggetti prodotti dai surrealisti, oggetti che assemblano parti decontestualizzate e private del loro senso consueto affinché rivelino i desideri inconsci che li animano e portino a galla le loro potenzialità simboliche. Il vaso in questione, un contenitore che può essere riempito nei più svariati modi, diventa l’«immagine sensibile di una nozione» impiegata per ripensare la soggettività umana e rielaborare il rapporto tra significante e significato, originariamente formulato da Ferdinand de Saussure.
Ma il riferimento di Lacan è anche alla ricerca archeologica e, in particolare, alla scoperta dei manoscritti del mar Morto, conservati dentro vasi, e il suo scopo è mostrare come in questo paradigmatico manufatto vada cercato non tanto il significato quanto il significante. Per destrutturare le tradizionali tesi filosofiche che interpretano il linguaggio come mero strumento di comunicazione, e al tempo stesso sostenere la struttura linguistica della soggettività e, soprattutto, dell’inconscio, Lacan ribadisce che «il significante rappresenta un soggetto per un altro significante». Con questa formula intende proporre un modello di soggetto vuoto che, sempre stretto tra due significanti, può essere individuato solo nel momento in cui scompare. Il soggetto diviene così, nella formulazione dello psicoanalista francese, un bordo evanescente tra significanti che evidenzia quel peculiare rapporto tra interno ed esterno proprio della condizione umana. Lacan chiama questa relazione estimità coniando un ossimoro che fonde esteriorità ed interiorità, a indicare una sorta di condizione di possibilità propria a entrambi i poli.

Fin qui, il significante costituito dal vaso, ma la salsa che lo riempie? A volte, ed è questo uno dei casi, Lacan colloca nei suoi testi alcune informazioni autobiografiche in forma cifrata, o semina riferimenti al suo lavoro di autoanalisi: qui, il rimando è alla sua provenienza da una famiglia facoltosa e amareggiata dai conflitti tra diverse generazioni, impiegata in un’azienda di fabbricazione di aceto e, per l’appunto, di senape. In omaggio alla tradizione cattolica e alla figura autoritaria del nonno paterno, il nome completo che venne imposto a Lacan è Jacques Marie Émile, indicazione non irrilevante dal momento che tanta parte della sua ricerca Lacan l’avrebbe poi dedicata al tema del Nome-del-Padre. La locuzione viene coniata giocando sull’omofonia tra i termini francesi nom (nome) e non (no, negazione) per evidenziare il ruolo legislativo e proibitivo che la figura paterna assume nell’Edipo; i trattini di congiunzione servono invece a caratterizzare l’insieme della funzione simbolica trasmessa, nella nostra cultura, per via paterna, così come il cognome.

Senso del desiderio
Il valore complessivo dell’interdizione edipica viene reinterpretato da Lacan per poterla applicare ai figli di entrambi i generi, senza le complicazioni presenti in Freud; la madre sarebbe desiderata, non nel senso strettamente sessuale, ma in funzione del possibile ristabilirsi di un rapporto fusionale e regressivo. Dunque, sia il maschio che la femmina desidererebbero il corpo materno non per consumare con esso un rapporto sessuale, ma per poter tornare nel suo grembo. Il Nome-del-Padre è l’architrave che struttura il soggetto, impedendogli di crollare sotto la spinta del desiderio materno e delle sue identificazioni primordiali.